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Anime nere

Regia di Francesco Munzi vedi scheda film

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La recensione su Anime nere

di logos
8 stelle

Il Sud e il Nord, la Calabria dell’Aspromonte e i traffici illegali da e per Milano; l’economia criminosa dell’ndrangheta che si innerva nei rivoli di un mondo globalizzato e la tradizione localistica di un Meridione profondo, chiuso nei suoi riti, litanie, e parole in codice, che diventano simboli, già da sapere per essere veicolo comunicativo: Anime nere si presenta all’inizio come una panoramica di questo confronto tra il moderno e l’antico, tra traffici e riti, tra illegalità circolante senza confini della droga e del denaro riciclato e una Calabria in Apromonte, chiusa nei suoi confini antropologici.  

 

Il nesso tra queste due dimensioni così diverse è data dai tre fratelli protagonisti. Luigi (Marco Leonardi) e Rocco (Peppino Mazzotta) dimorano a Milano, ma in realtà la loro sede è solo uno snodo di traffici remunerativi con l’Europa e il Sud America, e li accomuna l’attività illegale, il senso di onnipotenza e di comando. Soprattutto Luigi, impegnato nel narcotraffico, più spavaldo e incline a manifestare la sua tracotanza, mentre Rocco, che specula nell’edilizia con il denaro riciclato, sembra più smarcato dai segni dell’Aspromonte, loro terra di provenienza, e nei suoi occhiali indossa un’aria di rispettabile borghese, punteggiata da un linguaggio più ragionato, freddo ed elegante. Il terzo fratello, invece, Luciano (Fabrizio Ferracane) è rimasto a vivere nella terra dell’Aspromonte, continuando la tradizione della famiglia, come agricoltore e pastore di capre, come uomo devoto alla religione cattolica, ai suoi santi, alla polvere depositata dalle loro statue, che mischiata nell’acqua offre il proprio potere curativo.

 

A far rincontrare i tre fratelli tutti insieme, ci pensa il figlio di Luciano, il giovane Leo che, invece di seguire un’esistenza senza senso come quella del padre, prova una grande stima per lo zio Luigi e per le sue imprese, al punto che, dopo aver esploso diversi proiettili sulle vetrate di un bar della stazione con la complicità di un suo amico, si ribella all’autorità del padre decidendo di andare a Milano per incontrare lo zio. All’inizio e per un bel tratto, il film affonda la sua panoramica: l’attività illegale dei due fratelli del Nord, il lungo viaggio in Spagna per contrattare sul traffico di cocaina in Italia, il loro vivere a Milano; il rapporto tra il padre Luciano e il figlio Leo, che indica la rottura tra due generazioni, tra due diversi stili di vita, il primo basato sulla tradizione e sulla venerazione dei santi, il secondo, invece, sul richiamo dell’avventura criminosa, contro vincoli frustranti, rappresentati dalla legittimità delle istituzioni, non solo quelle di tipo famigliare e paterno, ma anche quelle che presiedono l’ordine costituito, siano esse formali e riconosciute come i carabinieri, ma anche quelle informali e più incisive dei clan malavitosi, non perché siano malavitosi, ma perché il clan più in vista dell’Aspromonte mette ombra e infamia sulle attività degli zii al nord. Non a caso il bar che Leo colpisce appartiene a questo clan. Arrivato a Milano, la notizia della sua azione è già pervenuta a tutti e tre i fratelli: innanzitutto il padre è costretto a subire una umiliazione dal boss del clan, con l’avvertenza di redarguire il figlio, perché altrimenti “il campo si restringe”; i due fratelli del Nord rimangono esterrefatti dall’onta subìta e decidono di riportare a casa l’avventato nipote ma anche di esercitare, in questo modo, un sopralluogo sulla loro terra d’origine, per rimarcare il loro potere contro quel clan.  

 

La panoramica si riversa allora sull’Aspromonte, e nel frattempo si sofferma a evidenziare i tratti di quella terra, i suoi usi e costumi. Lo sguardo si fa antropologico: gli uomini sono cupi, come lo è il clima, chiusi nelle loro emozioni, ossessivi e guardinghi nel rispetto dato e ricevuto, negli abbracci rituali di benvenuto e bentornato, mentre le donne vivono nell’ombra, nella dignità di una sofferenza comprensiva e profonda, che solo il loro sguardo può esprimere, al di là delle parole, come cifra dell’indicibilità dell’esistenza votata alla terra e al divino, con la fatalità accettata così come essa si dà nelle lente metamorfosi di una natura selvaggia e incontaminata, secondo processi rituali solcati dalla santità, venerata nelle gioie e a cui affidarsi nel dolore.

 

Questo schema di uomini e donne (i primi guardiani del giorno e del rispetto che porta a violenza se viene meno, le seconde guardiane della notte, della preghiera e della vendetta contro la violenza), è ben congeniato se tutto va come deve andare, se cioè il rispetto non viene a mancare. Non importa che vi siano attività criminose, che le cose da fare siano contro la legalità; importa che tutto avvenga nell’informalità del rispetto, senza il quale basta un niente, un colpo di fucile tracotante come quello del giovane Leo, perché scatti l’inesorabile sequenza della tragedia greca.

 

Qui il regista Francesco Munzi avrebbe potuto far esplodere un vero e proprio action movie, con le sue efferatezze malavitose senza fine con tanto di adrenalina. Invece no. Entra in profondità nelle esistenze che sono in gioco, le sviscera una ad una, senza mai perdere l’attenzione sulle dinamiche complesse delle loro relazioni, intrecciate di passato e di un presente che sta precipitando nel disastro irreversibile. Intanto la figura del padre e del fratello rimasto nel Sud, Luciano, che vive nella devozione dei padri e dei santi, che immola la sua esistenza nel lavoro e per la famiglia, credendo nel valore divino e salvifico della propria terra, che la pensa benedetta con l’alito della comprensione e del perdono, doti di indubbia qualità, ma che chiedono la virtù di starsene ai margini, fuori dalle meschinità del potere. Si potrebbe dire che Luciano, secondo gli schemi suddetti, non è né uomo né donna, ma un angelo decaduto, un pastore di capre sospeso in un limbo. Perché Luciano crede nell’invisibile, non sa che la realtà nel frattempo ha i suoi rigorosi percorsi che deviano costantemente dall’idealità. Di fatto non ha alcuna autorevolezza sul figlio, che ora si para dietro la rassicurante presenza degli zii del Nord, in particolare dello zio Luigi. E il figlio, così diverso dal padre, al tempo stesso è molto simile. Diverso perché, come ho già detto, vuole un’altra vita, non accetta di essere assoggettato dal potere del clan che ha oltraggiato, e si sente rafforzato dalla voglia di vendetta impressa nei suoi zii, che in questo modo non solo lo perdonano per il gesto compiuto ma al tempo stesso mettono in secondo piano la figura di Luciano, del padre, nei confronti del suo stesso figlio. Ma è simile, perché come il padre è un sognatore, vede una realtà che non esiste, e per la quale è pronto a sacrificarsi, anche se si crede libero nelle sue scelte giovanili contro il padre, ma entrambi destinati al sogno come traguardo e fine, a costo della vita.

 

 Fatto sta che tutto lo strapotere acquisito dal clan in questione contro la comunità, e soprattutto contro la famiglia per la condotta di Leo, sembra essere l’effetto dell’inerzia di Luciano, che non ha fatto nulla per rimarcare il nome della famiglia. Pirandelliano gioco degli equivoci si potrebbe dire, perché fino a prova contraria chi è veramente stato sul fronte è proprio lui, mentre i fratelli hanno lasciato la terra e ora se ne vengono a fare gli spacconi come una sorta di soccorso efficiente sempre all’erta, quando è in gioco il rispetto della famiglia. Si ha allora un mescolamento di carte: il presente, la modernità, diventa foriera della tradizione, mentre la tradizione, personificata dal padre Luciano, diventa la rappresentazione del disvalore, dell’inettitudine. Si apre così il gioco delle lotte non solo tra la famiglia e il clan ma anche quelle interne alla famiglia. La vicenda assume un contorno ancora più netto quando proprio Luigi viene ammazzato da un agente del clan, a sangue freddo, in una sera, mentre stava per accendere l’automobile. Questa morte segna il punto di non ritorno. Tutti i rapporti tra la famiglia sembrano compattarsi per realizzare un attacco contro il clan, anche lo stesso Luciano è oramai convinto che non si possa tornare più indietro.

 

Qui il regista si prende tutto il suo tempo con acume antropologico per sottolineare la drammaticità locale dei rituali  che comporta la morte. La veglia, le preghiere, le litanie, le condoglianze, il funerale. Anche la moglie di Rocco (Barbara Bobulova) sopraggiunge da Milano, evidenziando ancor più il contrasto tra il Nord e il Sud, tra lei e il marito, tra lei e un mondo che non le appartiene. Tutti sono coinvolti in questa morte, le esistenze vengono messe a nudo in primo piano, ed emblematica diventa la madre dei tre fratelli, mamma Rosa (Aurora Quatrocchi), che sprigiona tutto quel che è nell’essere esistenziale di una donna guardiana della notte, con i suoi occhi persi nel dolore indicibile, aperti alla vendetta e a un amore sconfinato per il figlio morto, con le sue mani protese verso una bara che deve fermarsi, per poi essere trasportata nella chiesa. E nella preghiera si medita vendetta, una vendetta che sarà resa in anticipo, senza il rispetto dei tempi, e che sarà causa di un destino ancora più tragico di quanto si poteva ancora immaginare. Di fronte a una realtà che si avvita su se stessa, come uscirne? Luciano, che è sempre stato nel suo limbo, brucia nel fuoco i suoi ricordi e i suoi fantasmi devoti, attaccando la realtà in cui vive con una reazione allucinata, in cui la morte inferta e subìta finiscono per confondersi con una redenzione, nelle immagini strazianti che chiudono l’opera, rappresentandoci il figlio Leo come avrebbe dovuto essere secondo il desiderio del padre, che oramai non è più su questa terra.

 

Ritmo rigoroso, sequenze incredibili sulle esistenze colte nei loro riti quotidiani, nei loro tic antropologici; immagini cupe, anche in senso climatico, per sottolineare la drammaticità quale sottofondo inaggirabile delle esistenze; un esame introspettivo con intelligenza, svolto dall’esterno, con sapiente relativismo, sospendendo ogni giudizio di valore, per quanto possibile: questo film ci regala fondamentalmente due cose: le potenzialità del cinema italiano e la fenomenologia di un mondo che non ci è dato di vedere, quasi debba rimanere una censura che ci portiamo addosso da un lungo passato che non passa.

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