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Pasolini

Regia di Abel Ferrara vedi scheda film

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La recensione su Pasolini

di LorCio
6 stelle

Proviamo così, partiamo dalla “situazione”. Che in questo caso è il contesto. In altri termini: contestualizziamo la visione di questo film nel microcosmo di una media sala cinematografica di una grande città. Entriamo in sala, tutto esaurito. Su un parco di circa centocinquanta posti, una decina è occupata da adulti, di cui pochissime teste canute (caso strano). Il resto è gioventù, perlomeno anagraficamente parlando.

 

Si tratta di una gioventù particolare, perché è essenzialmente composta da studenti di un illustre ateneo in libera uscita causa prezzo ridotto ed insignificante giorno feriale. Riconosco moltissime facce della facoltà che frequento. Senza generalizzare, posso identificarli in una sorta di ceto medio riflessivo post-adolescenziale, con derive radicalchic alla Internazionale ed interessi, diciamo così, suggeriti dalla galassia del mondo Repubblica.

 

È ovviamente una semplificazione, ma è indicativo per capire chi sia interessato ad un film del genere, ché poi è anche un discorso da seguire assieme a quello sul pubblico al quale si rivolge un film del genere. Un pubblico che, pur ingurgitando popcorn dall’inizio alla fine come se fosse al cospetto di un blockbuster, è comunque appassionato e consapevole dell’importanza storica, politica, artistica, in definitiva culturale di Pasolini.

 

Se vogliamo essere pignoli se non antipatici, una parte di quel pubblico cova un sentimento quasi devoto nei confronti di Pasolini e una qualche responsabilità è da accreditarsi anche all’università di cui prima che, specialmente in questa città, tende a mitizzare la figura di Pasolini caricandola in modo tale da farla assurgere ad oracolo del Novecento.

 

Ora, il discorso sulla mitizzazione di Pasolini, la cui tragica morte ha sicuramente contribuito a fomentare, andrebbe prima o poi affrontato con una coscienza critica che non metta in dubbio l’opera del poeta ma che rifletta sulle conseguenze dell’interpretazione del messaggio pasoliniano da parte di un certo mondo accademico e culturale, spesso proposte senza possibilità di dibattito, come se la sua non totale comprensione in vita debba essere ripagata da un’eccessiva venerazione post mortem.

 

Perché questo lungo e forse inutile preambolo? Perché Pasolini è, tutto sommato, il blockbuster d’autore dell’anno. Per blockbuster non intendo, in questo caso, l’impegno economico e il riscontro commerciale dell’opera in sé, ma la rilevanza artistica e culturale dell’opera presso il pubblico del cosiddetto (mai formula fu più vuota e tuttavia efficace) cinema di qualità.

 

Il film più atteso, nei confronti del quale si sperava di crearvi attorno un grande dibattito come ai bei tempi dei cineforum, la versione di un regista maudit talentuoso quanto discontinuo… una coproduzione europea diretta da un americano, lo “spettacolo d’autore” dell’anno, proprio perché riguardante la figura intellettuale più fondamentale del secondo Novecento… il cinema finalmente!

 

E poi il film. Che mi ha spiazzato per l’empatia che non si è instaurata, per la scintilla che non è scoccata. È un problema ovviamente mio e soltanto mio, che non dovrebbe inficiare sul giudizio riguardo il film in sé. Essendo uno spettatore, per quanto consapevole, educato e via dicendo, il mio non può che essere un giudizio personale da articolare per sommi capi.

 

Cosa mi ha convinto di Pasolini? Innanzitutto Pasolini stesso, cioè Willem Defoe, più che un interprete un replicante lontanissimo dall’imitazione. Defoe vive il personaggio ripetendo sì le mosse, le espressioni, gli sguardi, ma rielaborandolo e permettendogli così di andare oltre l’asettica messinscena di un biopic.

 

C’è una scena in cui apre l’armadio e sceglie l’abbigliamento della giornata. E poi, sul finale, la Lettera 22 e l’agenda con gli appuntamenti di novembre, naturalmente saltati e fermi in un limbo assoluto. Girato servendosi degli abiti e dei feticci dello scrittore, il film potrebbe quasi essere una riflessione teorica sul cinema biografico: l’attore s’impossessa del personaggio e del suo mondo, si sostituisce a lui nell’arco di un’ora e mezza, propone una propria visione della storia e poi rimette tutto a posto in nome della finzione che non può essere realtà.

 

Il discorso sulla finzione mi viene in supporto dell’altro elemento che mi ha convinto del film: la non volontà di dare una versione dei fatti alternativa alla verità attualmente documentata. In molti sono rimasti delusi in seguito alla sequenza dell’uccisione. Non si accetta, insomma, l’idea che sia andata effettivamente così, stante i documenti certificati tra l’altro. Affascina e continuerà ad affascinare la tesi dell’omicidio dall’alto, certamente suggestiva e tutto sommato credibile ma attualmente improbabile.

 

Un’indagine a riguardo me l’aspetto e l’accolgo con favore da un documentario o da un film inchiesta come quello di Marco Tullio Giordana. All’interno di un film del genere, che rielabora artisticamente l’ultimo giorno di vita di Pasolini, non mi interessa sapere chi l’abbia ammazzato, mi interessa capire chi sia stato ammazzato e cosa si è perso con la sua scomparsa.

 

In questo caso Ferrara è puntuale: ricostruisce la morte partendo dagli atti, lasciando che sia lo spettatore a giungere alle conclusioni. Il merito sta nell’aver distaccato l’assassinato dall’assassinio, l’uomo dal contesto della morte. E se vogliamo l’efficacia dell’operazione sta tutta qui: a forza di parlare del (presunto) mistero della morte, ci siamo dimenticati di ciò che ha prodotto in vita o perlomeno ci siamo abbandonati alla celebrazione solo in seguito a quell’atroce morte.

 

Cos’ha prodotto in vita? Ed ecco l’ultima cosa che mi ha convinto del film: anziché riproporre ciò che conosciamo (a parte qualche sequenza di Salò), Ferrara ricostruisce ciò che Pasolini non ha potuto portare a compimento. Il film si apre con una scena tratta da Petrolio, romanzone-saggio incompiuto, con Roberto Zibetti intento in una maratona di sesso orale, che poi ritroviamo nel famoso episodio del party quirinalizio. Poi appare Andrea Bosca su un aereo, qualche sequenza onirica e via. La narrazione del Petrolio ricostruito ha una sua efficacia assolutamente significativa.

 

L’altra ricostruzione è quella di Porno-Teo-Kolossal, idea di film da proporre a Eduardo De Filippo (qui proposto in romanesco da un umanissimo Ninetto Davoli) e Ninetto Davoli (che nel gioco meta cinematografico è Riccardo Scamarcio in versione napoletana). Con deliziosi e volontari anacronismi, quasi a voler sottolineare l’universalità dell’apologo, il film è ricostruito in maniera molto pasoliniana, in un buon equilibrio comico-apocalittico. Restano due dubbi: Eduardo, genio e moralista, avrebbe accettato quel ruolo? Che film sarebbe stato questo PTK (poi più o meno ricreato con I magi randagi da Sergio Citti)?

 

(Volendo anche l’evocazione della Callas nel finale funesto è una ricostruzione: suggerire la presenza di un mostro sacro, che ha scelto per il suo unico ruolo al cinema un film di Pasolini, nel momento estremo dell’esistenza di Pasolini, quasi una carezza sfuggente al corpo devastato sulla spiaggia di Ostia).

 

Cosa non mi ha convinto? L’equilibrio dei personaggi. Tanto Defoe è penetrante, credibile ed affascinante nella caratterizzazione del protagonista, quanto gli altri (con la doverosa esclusione della sempre gigantesca Adriana Asti e lasciando da parte Ninetto e Scamarcio che giocano sull’assurdo) non vanno al di là della bidimensionalità, non si staccano dall’album delle figurine, non hanno spessore, restano figure stilizzate e piatte. Tralasciando Giada Colagrande in Dafoe pessima cugina, la Laura Betti della pur esperta Maria De Medeiros è contestabilissima.

 

Non mi ha convinto l’idea del doppiaggio. Siamo la patria del doppiaggio, riconosco il fondamentale contributo culturale del doppiaggio nella fruizione dei film stranieri in una nazione tutto sommato prevalentemente disinteressata a conoscere altre lingue e tutto il resto. Ma doppiare un film di questo tipo che vive del suo melting pot linguistico vuol dire privarlo di un suo punto di forza.

 

Benché sia improponibile un Dafoe-Pasolini che parla inglese o anglo-italiano, il messaggio della commistione sta, ancora una volta, a sottolineare l’universalità dell’artista e del suo messaggio, forse una scelta di straziante illusione. La voce di Fabrizio Gifuni, pur avvolgente nella sua teatrale limpida pastosità, è un elemento di straniamento troppo evidente.

 

Non mi ha convinto la continua enunciazione di virgolettati pasoliniani, interi pezzi di interviste e dichiarazioni riproposti pari pari alla stregua di una lettura scenica di matrice teatrale. Malgrado il fascino della parola, questi monologhi (in fondo tali sono) non riescono ad inserirsi con adeguatezza nell’economia del racconto, mi sembrano posticci e pare rallentino il ritmo di un film che fa dell’immagine la sua forza.

 

A mancare, dunque, è il giusto equilibrio tra messinscena e messaggio, tra ciò che fa vedere quindi capire e ciò che vorrebbe far vedere e possibilmente capire, tra quel che accade e la possibile interpretazione di ciò che è accaduto, tra illusione e ricerca della verità. Manca forse una vera convivenza tra la creazione (l’interessante ricostruzione artistica del “mondo” Pasolini) e l’impegno (l’irrisolta riproduzione innanzitutto verbale del “messaggio” Pasolini).

 

Sebbene comunque non venga a mancare l’idea di un cinema forte e consapevole della propria funzione culturale, un vero film d’autore in cui è l’autore stesso ad assumersi la responsabilità del prodotto, questo Pasolini, al di là delle emozioni che suscitano le sequenze più naturalmente empatiche, mi convince se non altro in quanto atto di militanza artistica. Dunque da sostenere, certo, ma anche da analizzare senza pregiudizi per giungere, infine, a cercare di capire il perché della “situazione” di qualche centinaia di righe fa.

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