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Mia madre

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Mia madre

di giancarlo visitilli
8 stelle

Quando il giorno dopo rientri, in quelle stanze, c’è ancora l’odore di lei. La piega dei suoi vestiti, le orme delle sue mani, sulle pareti degli armadi. Quel che di lei è rimasto conservato, nei cassetti dei ricordi. Le pagine dei libri dove ogni segnale è significato del suo passaggio. Nulla e niente invecchia. L’eterna giovinezza di chi rimane.

L’impressione è che Nanni Moretti abbia avuto le stesse intenzioni del poeta (“Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia), rispetto al suo racconto intimo, umano, ai limite dello spirituale. Perché Mia madre è una gran bella pagina di scrittura, prima di tutto, poetica in rapporto alla madre, prosastica per quel che concerne la vita di chi perde, il lavoro prima e la propria anima dopo. La padronanza nella scrittura e la cifra stilistica degli sceneggiatori (Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella) rendono appieno l’introspezione a cui dà causa questo nuovo film di Moretti.

In Mia madre (film che si presta ad almeno una decina di letture), c’è la storia di Margherita, una regista di successo, ma in un momento niente affatto brillante della sua carriera, compreso quello della sua vita privata, con una madre morente e una relazione arrivata al capolinea. A farle compagnia c’è suo fratello, Giovanni, anche lui alle prese con importanti novità nella sua vita.

Mia madre è un film intimista in tutti i sensi: dalla fotografia di Arnaldo Catinari, capace di rendere appieno, attraverso la luce, quel che rimane e l’ombra di chi sta compiendo il suo passaggio, alla colonna sonora, che intervalla la ieraticità del minimalismo di Arvo Part, reso attuale dal grido di chi rivendica il diritto al lavoro. Tutto scava. Affidato ai volti e alle parole di eccellenti e credibili attori, dall’alter ego dello stesso Moretti, una Margherita Buy che sembra recitare se stessa; una madre malata interpretata da Giulia Lazzarini, attrice dalla lunga esperienza teatrale; una giovane promessa, Beatrice Mancini, che completa il quadro generazionale, fino ad un indimenticabile John Turturro (il suo travolgente balletto sulle note orientaleggianti è destinato alla storia del cinema), che ha la straordinaria capacità di rendere perfettamente quello che Pirandello saggista ha detto ne L’umorismo, a proposito della differenza di un comico e di chi ha la capacità, invece, di infondere il “sentimento del contrario”. Questo nuovo film di Nanni Moretti, quasi in continuità con il bellissimo Habemus papam (2011), interroga, senza la pretesa di ottenere risposte, chiunque è dalla parte di chi guarda, compresa la stessa di chi ha il compito di indagare, inquadrare e osservare con attenzione: “Ma come ti è venuto in mente di far un film sulle persone che perdono il lavoro?”, è la domanda che viene posta alla regista del film. Ma Mia madre è anche un omaggio al grande cinema, da Fellini a Kubrick, Wim Wenders (bellissima la sequenza di Margherita dinanzi alla fila lunghissima davanti al cinema Capranichetta di Roma, in attesa di entrare per assistere alla proiezione di Il cielo sopra Berlino), passando anche per il suo stesso cinema, quello che viene ricordato mediante una battuta a Margherita: “fai qualcosa di nuovo, di diverso, rompi almeno un tuo schema”.

Eppure, è proprio in rapporto al nuovo che Moretti è come se volesse affidarci la sua idea di innovazione, intesa come ritorno al mondo classico. Tutte le generazioni presenti nel film hanno un amore comune: la letteratura classica, quella che passa attraverso il latino o l’italiano che finanche un Presidente di Consiglio (ma ciò accade solo nel nostro povero Paese!) si arroga il diritto a voler eliminare dalle scuole, avendo lo stesso atteggiamento dell’adolescente nel film, quando si chiede “a che serve il latino?”, parafrasando “a che serve Manzoni?”. Saranno stati proprio Tacito, Lucrezio, i tanti studi della madre ad aver dato vita a tanta figliolanza, a cui, anche nel momento della perdita, non rimane altro a cui aggrapparsi, se non la dignità di essere viventi utili per qualcosa e qualcuno. Il momento più alto della storia rimane quello in cui chi ha lasciato un’eredità che si avvale dell’immenso valore della saggezza, dell’onestà e dell’amore, riesce a non invecchiare e a rimanere sempre giovane, attraverso la presenza di chi rimane.

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