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Mia madre

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Mia madre

di barabbovich
5 stelle

Il cinema come terapia: dalle nevrosi giovanili, passando per le confessioni schiettamente autobiografiche di Caro diario e Aprile per poi approdare alle paure per la vita del figlio (La stanza del figlio) e a quelle dell'identità politica del Paese (Il caimano) fino a trovare nell'alter ego di Michel Piccoli e Margherita Buy la sponda ideale per raccontare il proprio senso di inadeguatezza e la difficile elaborazione del lutto della madre nonché la difficoltà a vestire i panni di regista. È questo - in maniera sempre più dichiarata - il cinema di Nanni Moretti, un cinema condito dai luoghi caratteristici della sua poetica: la canzone cantata in macchina, il balletto improvvisato, la torta, le conversazioni a tavola, l'idiosincrasia nei confronti della retorica e dei luoghi comuni. Ma è un cinema ormai inteccherito e allo stesso tempo disincantato e malinconico, che ha perso la sua virulenza caustica, la sua capacità di far ridere amaramente o di disseminare dubbi inaspettati. In Mia madre tutto ruota intorno all'alter ego di Moretti, una Margherita Buy raramente vista così a disagio e costretta ad assumere anche i cliché del regista romano, la sua attitudine che da autoironica si è fatta autodissacratoria, forse nel nome di uno sui "duecento schemi" che l'autore vorrebbe abbattere in sé stesso. Nel dodicesimo lungometraggio di finzione di Moretti, Margherita (che conserva il suo nome) è una regista che sta girando un film su una fabbrica che, prossima alla chiusura, sta per essere rilevata da un americano disposto a salvarla a condizione di un ritocco ai salari e alle risorse umane. Il ruolo del nuovo proprietario spetta a un attore cialtrone, mitomane e smemorato (Turturro) col quale la donna ha un rapporto difficile, che si va a sommare a quello con il compagno dal quale si è da poco allontanata (Ianniello). Se l'anima autobiografica relativa alle responsabilità del regista si estrinsecano, in questo processo di cinema terapeutico che scava nell'inconscio con improvvisi scarti temporali e movimenti emozionali spiazzanti, in questo ennesimo film nel film (dopo Sogni d'oro e Il caimano), quella privata trova ampio spazio nell'accudimento che la regista e il fratello Giovanni (lo stesso Moretti), che si licenzia appositamente, cercano di dare alla madre morente (Lazzarini), lutto che l'autore di Ecce bombo visse nel 2010. Entrambe le nervature del film - quella professionale e quella intima, familiare - nonostante il sincero travaso autobiografico, lasciano un'impressione di incompiutezza, di virata verso toni sempre più saturnini (sottolineati dalla colonna sonora di dolorosa bellezza composta in gran parte dai brani eterei e rarefatti di Arvo Pärt), di un cinema sempre più ombelicale che si mette davvero troppo "accanto al personaggio" (come predica continuamente la protagonista senza sapere neppure esattamente cosa significhi), di una di una stasi creativa che i cinefili si augurano possa interrompersi il prima possibile, pena il rischio che dopo le opere sull'elaborazione dei lutti del figlio e della madre possano arrivare anche quelli del prozio e della tata.

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