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Come to My Voice

Regia di Hüseyin Karabey vedi scheda film

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La recensione su Come to My Voice

di OGM
8 stelle

Segui la mia voce. Una voce guida un cantore cieco attraverso i sentieri del Kurdistan turco. Casim è ormai molto avanti con gli anni, ha girato a lungo, di villaggio in villaggio,  e ormai conosce a memoria tutte le storie. Anche quella dell’anziana Berfe e della sua piccola Jiyan, che ha incontrato lungo la via, mentre cercavano di portare a casa un oggetto tanto prezioso quanto pericoloso: una pistola, con la quale speravano di poter comprare la libertà di Temo, il figlio della donna, il padre della bambina. Questo è il cuore tenero e poetico di una storia che nasce con la persecuzione dei deboli e si nutre della corruzione dei potenti. I militari arrestano uomini innocenti, con la falsa accusa di terrorismo, e poi chiedono di essere pagati per rilasciarli.  Sopruso e ricatto fanno da sfondo ad un racconto dall’intenso accento lirico, in cui la genuinità dello spirito agreste, amalgamandosi con la desolazione del territorio montano, si carica di una misteriosa profondità. Lassù, dove si può vivere con niente, possedendo solo una pecora ed un agnello, e dove non passa mai nessuno, a parte qualche contrabbandiere, può capitare di toccare con mano un mistero che forse racchiude la verità. È un occhio circondato dal buio, e al quale però nulla sfugge. L’oscurità è anche il riparo che separa l’ignoranza e l’innocenza dalla crudele luce del mondo. Berfe e Jiyan si trovano al di qua di quella barriera, nel luogo miserabile ma fatato in cui non si ha piena coscienza di ciò che accade. Lì dentro si può continuare a sognare, a credere alla magia, al prodigio che trasforma uno strumento di morte in un dono di salvezza. Ci si può illudere che il sacrificio venga sempre ricompensato, che basti dare tutto ciò che si ha per ricevere tutto ciò che si vuole. Nelle fiabe un’arma illegale si può anche pagare in natura, con un paio di bestie,  secondo le usanze dei contadini. E un vecchio fucile vale quanto un moderno mitragliatore. Il  profilo del male si livella, fino ad annullarsi, nelle menti che non ne hanno esperienza diretta. E così le sue concrete incursioni nella realtà finiscono per sfumare nell’idea di un gioco magari pericoloso e difficile, ma al quale è giusto partecipare. Nonna e nipotina vi prendono parte, tenendosi per mano. Credono ciecamente nel significato di un’avventura della quale non conoscono e non possono capire nulla. Sono le icone naïf  di un paesaggio rurale nel quale la violenza poliziesca giunge come un’intrusa fuori dal tempo, un’assurda nemica che non può che fondarsi sulla menzogna. È uno strano potere malefico quello che, una notte, fa sparire tutti gli uomini di un paesino. Ed è lo stesso che, nel tempo, continua la sua azione nefasta, impedendo alle famiglie degli scomparsi di raggiungere l’obiettivo necessario a spezzare l’incantesimo. La vicenda può apparire come una favola, a chi la guarda dalla prospettiva delle antiche leggende, quelle tramandate oralmente, e ancor oggi recitate nelle tradizionali cerimonie delle campagne. Per vederla così, basta leggere, con animo semplice, il sorprendente disegno a rovescio che il paradosso ricama sulla tormentata faccia della realtà.   

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