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Boyhood

Regia di Richard Linklater vedi scheda film

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La recensione su Boyhood

di foxis
9 stelle

Boyhood è stato uno dei film più attesi di quest'anno, fatto reso ancor più evidente dall'ampia pubblicità di cui ha goduto. Non c'è molto di cui soprendersi d'altronde, se si considera il perchè di tanta impazienza. Trentanove giorni di riprese effettuate nell'arco di dodici anni, pressapoco la durata della “boyhood” (fanciullezza), mantenendo gli stessi e non pochi attori protagonisti. Basta trucco o effetti speciali artificiosi, in questo film il tempo, che fa da co-protagonista e da silente voce narrante, deve mostrarsi in tutte le sue visibili tracce. Certo non è la prima volta che in un suo film Richard Linklater collabora col tempo, basti pensare alla trilogia Before sunrise, Before sunset, Before midnight in cui tra ogni capitolo del film intercorrono nove anni, ed in cui i protagonisti rimangono gli stessi; e non è neanche la prima volta che il regista sceglie di porsi domande riguardanti la vita e l'esistenza. È l'atmosfera creata a rendere unico questo lavoro, derivata dal tentativo di emulare per qualche ora il passare del tempo, che talvolta sembra scorrere rapidamente e talvolta sembra non passare mai, e dalla ricerca di una bellezza lì dove non si pensa di poterla trovare. Nel film Radiofreccia (del cantautore Luciano Ligabue) il personaggio simboleggiante “lo scemo del villaggio” sentenzia di continuo che la vita è piena di tempi morti, mentre i film ne sono privi. Il tentativo di Linklater consiste proprio nel cogliere quei tempi cosiddetti “morti” per disvelarne il significato recondito. L'inizio del film è accompagnato da una canzone (intitolata “Yellow”) molto conosciuta del gruppo pop Coldplay, come a suggerire che ciò che seguirà toccherà una corda comune, un tema che conosciamo bene. Siamo di fronte a un'opera cinematografica molto più lungimirante di una scelta originale o di una trama avvincente. Questa opera è un omaggio alla vita o, per essere più chiari, al ruolo che l'uomo ha all'interno della vita. La stessa trama del film risulta difficilmente riassumibile, in quanto il suo obiettivo consiste nel raccontare dodici anni di vita, e quindi di vicende politiche, sociali, ma soprattutto personali. Protagonista del film è una famiglia composta dal figlio Mason, sua sorella Samantha, e dai genitori divorziati Olivia e Mason Sr.. Il padre (interpretato da Ethan Hawke) è una figura che compare saltuariamente nella famiglia, come spesso accade quando l'affidamento viene concesso alla madre, e ciò non permette ai bambini di considerarlo come un punto di riferimento stabile. L'instabilità, d'altronde, è un tema ricorrente per l'intero film, attraverso i continui traslochi che obbligano i figli ad abbandonare le amicizie appena strette, o attraverso la figura materna che persiste nel scegliere dei partner violenti e tendenti all'alcolismo. La sceneggiuatura, che spesso è la vera protagonista nei film di Linklater, qui costruisce uno schema narrativo che non si sviluppa mai completamente. Non ci sono momenti del film in cui determinate questioni si risolvono; gli interrogativi riguardanti la vita sono incolmabili da qualunque risposta. Questa perenne precarietà consente ai personaggi di porsi continue domande riguardo loro stessi ed il mondo che li circonda, donando ai lavori di Linklater un carattere esistenziale. Il ritmo del film non è incalzante, difatti Boyhood non è un'opera di intrattenimento. Attreverso il lento procedere del film si entra in un'atmosfera tipica quotidiana, in cui la ruotine, non lasciando spazio alla spontaneità e all'improvvisazione, costringe l'uomo all'accettazione della prevedibilità delle sue giornate. È proprio la “routine” quell'elemento che incontriamo maggiormente lungo la vita. È necessaria al nostro sostentamento se si vuole avere un lavoro ed una famiglia, ma se patita morbosamente può diventare una sorte di morte prematura. Tale ambivalenza rappresenta la potenza della riflessione che scaturisce dal film, ovvero è proprio la ruotine che, attraverso il ripetersi di determinate situazioni, spinge l'uomo a riflettere sul significato di tale meccanismo, ad interrogarne l'autenticità. La noia rappresenta la fine della vitalità, o è piuttosto il momento in cui più di ogni altro ci si interroga sul significato del nostro vivere? Quando nessuna novità riesce a distrarre la nostra attenzione, quanto siamo capaci di mantenere la nostra identità? È difficile capire se la nostra esistenza mantiene un senso al di là delle azioni che compiamo e che ci rappresentano, eppure è proprio questo che ci può far avvicinare al tanto cercato “senso della vita”. Questo film può essere considerato come una delle opere artistiche di maggior generosità dell'uomo all'uomo. A proiezione finita sembra di aver assistito a dodici anni della propria vita, perchè le vicende narrate sono così universali che possono rappresentare contemporaneamente tutti e nessuno in particolare. Si assiste ad un viaggio alla ricerca del tempo che, seppure non riesca a (o non voglia) trovarne un significato, riesce a restituirne l'inconfondibile simultanea sensazione di perdità e di conquista, di infinitezza e di finitezza. Il passare degli anni è scandito da occasioni perse e momenti infiniti, da momenti di crisi e momenti di completezza; nell'attimo conquistiamo noi stessi e la nostra realizzazione, per poi continuare nella nostra routine, trasformando quell'attimo in ricordo e in una riserva di energia. Nella memoria collezioniamo frammenti di identità, da ripescare nei momenti di smarrimento. In tal senso i personaggi in questione vacillano in una mancanza di identità e di aspirazioni, e vedono nella possibilità di diventare genitori una via d'uscita da questa frustrazione. Ovviamente una scelta fondata su queste premesse non può che causare a sua volta dolore, e la crescita di un figlio, come quella di Mason, può rivelarsi colma di solitudine. Anche i temi affrontati non possono essere riassunti a causa della loro vastità, perchè la vita stessa non è un fenomeno riassumibile o pienamente comprensibile. Attraverso questa consapevolezza, il metro per misurare la potenzialità di un'opera artistica muta, ovvero si trova maggior vigore in un'opera capace di suscitare infiniti interrogativi (il che consente al fruitore di cercare da sé una possibile soluzione), rispetto ad una che regala risposte determinate; e, senza dubbio, nella prima si troverà maggior generosità che nella seconda.

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