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Boyhood

Regia di Richard Linklater vedi scheda film

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La recensione su Boyhood

di giuvax
9 stelle

Ellar Coltrane

Boyhood (2014): Ellar Coltrane

 

Non è un escamotage, e non è furbizia. È la capacità di Linklater di creare ogni volta un corto circuito. Più o meno sottilmente, più o meno in maniera sotterranea. Linklater sa parlare, sa pensare, sa come la gente pensa. Waking life era filosofico, forse a tratti criptico, forse eccessivamente cervellotico, ma anche nelle parti meno immediate aveva qualcosa che pescava nella sensibilità comune, e per questo finiva per attrarre in modo magnetico, per snocciolare delle risposte a delle domande mai fatte ma che la gente normale si fa. La serie Delpy / Hawke, uguale: non sono filmetti romantici, non sono commediole leggere, o magari sì, ma lo sono a modo proprio, e cioè vestiti di un'intelligenza e spessore che li rende verosimili e di impatto. Come quello scambio di battute di Chasing Amy a proposito dei rapporti tra donne: domande che tutti gli ingenui hanno fatto e probabilmente tante ragazze lesbiche si sono sentite rivolgere, proprio con quel tono, proprio con quelle parole.

E poi Linklater arriva a Boyhood, o meglio ci arriviamo noi: lui era partito da lontano. Lui ci aveva scommesso da principio, e con lui tutto il cast, coraggioso e fedele. Ma, ripeto, non è un escamotage furbetto, quello di far coincidere gli estratti di storia dei personaggi con la crescita reale degli attori. È qualcosa che provoca un corto circuito. Qualcosa che trasporta contemporaneamente molto, troppo dentro il film e tremendamente fuori e dietro. Ci rende al tempo stesso spettatori del film e del momento delle riprese, della crescita dei personaggi e di quella degli attori. Se non si vedessero crescere tutti i bambini, in un paio di momenti si resterebbe ingannati, o meglio, vigili nella nostra consapevolezza smaliziata di spettatori abituali. E un pensiero istintivo spunterebbe: "...però. Lo hanno fatto invecchiare davvero bene, Ethan Hawke" oppure "Forse hanno esagerato con i rotoli di ciccia della Arquette". Un momento. Non c'è nulla di costruito, non c'è cinema in questo: per gli attori sono davvero passati tanti anni, come per i bambini. Noi vediamo come loro sono davvero invecchiati (e se per i bambini mostrarsi è una cosa abbastanza neutra, per due attori di cui si vedono così tanti cambiamenti no, e allora chapeau a entrambi per il coraggio).

 

Ellar Coltrane

Boyhood (2014): Ellar Coltrane

 

Ma il corto circuito non nasce solo dalla sovrapposizione del piano reale con quello della storia raccontata. Intanto, Linklater racconta anche ciò che c'è fuori dal film, perché veder crescere gli attori porta inconsciamente a vedere contemporaneamente le persone e i personaggi. Rimane inespresso, ma esiste un secondo sguardo dello spettatore che cerca elementi di realtà sui volti degli attori, cerca l’attore dietro al personaggio, percepisce cosa possa essere questa esperienza della recitazione che si fonde con la crescita: due infanzie, due adolescenze, due ordini di problemi, sofferenze, gioie che forse in alcuni momenti coincidono, mentre in altri si sono biforcati (tra vita e finzione).

Ogni volta che guardiamo il volto di Mason una parte lontana di noi spettatori, pur nello stesso momento in cui sta ascoltando la storia del personaggio, esce all’esterno del film e vede gli occhi di Ellar dietro quelli di Mason, senza per questo che ne risulti una sensazione di scarsa bravura dell’attore o artificiosità, senza alcuno scollamento. Semplicemente sentiamo per quanto paradossale anche l’ipotetica sovrapposizione di attore e personaggio, percepiamo il suo punto di vista e le sue emozioni di bambino, adolescente o giovane adulto, che si sovrappongono (perché a sua volta l’attore si immedesima, mentre recita) a quelle del personaggio. E così noi siamo il terzo strato, la terza dimensione. Attratti dalla storia per quanto banale e assolutamente normale, attratti dagli attori, di cui non sappiamo nulla, eccetto il fatto che stanno vedendo se stessi crescere mentre recitano, attratti da ciò che non c’è nel film, ma finisce per esserci lo stesso, ossia noi stessi, e non solo per il banale solito automatico meccanismo di identificazione, ma perché ci ritroviamo affini anche agli attori, per una volta, perché siamo partecipi di una frazione della loro vita, anche della loro vita di attori. Il corto circuito poi è sancito in maniera definitiva, come dicevo, proprio dalla specialità di Linklater, che è la capacità di trasformare in immagine filmica la sua personale sensibilità per le persone, per le emozioni, per le situazioni. È tutto così verosimile, anche nelle parti di narrazione ‘sbagliate’, che non c’è tempo di pensare al concetto di immedesimazione. Non c’è reale immedesimazione con i personaggi, non c’è possibilità di scegliere davvero uno dei personaggi per farlo diventare nostro alter ego. Ci si ritrova dentro come in un reality intelligente, come in una famiglia di amici a cui possiamo assistere senza però interagire troppo, per non invadere. E appunto, anche nelle parti ‘sbagliate’, che lo sono soltanto nell’ottica di una narrazione cinematografica compatta e perfettamente coerente: ma è forse così nella realtà? Nella realtà ci sono lunghissimi tempi morti, errori stupidi che fanno perdere tantissimo tempo, errori gravi (i mariti, sbagliati, uno peggio dell’altro, con difetti ricorrenti) di cui non ci si rende conto se non, appunto, con uno sguardo globale, esterno, che è il nostro di spettatori (o di amici esterni), non certo di persone che ci vivono dentro mentre le cose accadono. Sbagliato, già: didascalico, forse, il modo in cui si passa da un marito all’altro, sbrigativo forse come se ne esce. Grezzo o raffinato, sono entrambe possibilità della vita reale, e esigente l’occhio dello spettatore. Ma noi non siamo più solo spettatori: siamo resi fragili dal vederci proiettati in quanto persone, e non in quanto personaggi rappresentati, non in quanto tipi. Perché vediamo sullo schermo nello stesso istante le persone e le storie che raccontano.

 

Ellar Coltrane, Ethan Hawke

Boyhood (2014): Ellar Coltrane, Ethan Hawke

 

E a volte Linklater ci riporta violentemente dentro: quando sa come si parla, quando ci mostra come si comportano le persone vere. Formidabile in questo senso la sequenza di uno dei pomeriggi che i due ragazzi trascorrono col padre (Hawke) e, per la loro reticenza a parlare, a un certo punto vengono affettuosamente bacchettati, perché, da separato, non è quel tipo di conversazione, quella che lui desidera con loro. Vuole uno scambio vero, e lo dice con le parole giuste, con l’enfasi giusta, con l’entusiasmo commovente di qualcuno che ha davvero voglia di cambiare le cose. Con la bravura (Hawke) di chi davvero vuole dare corpo e anima a un personaggio che altrimenti rimarrebbe piatto. Non c’è niente di piatto in Boyhood, a dispetto delle vicende narrate, che lo sembrano solo perché può esserlo la vita vera, e ci aspettiamo qualcosa di diverso da un film. Poi, mentre aspettiamo, il film procede, e finisce prima di quanto ci aspettassimo. Torno a casa, leggo che il film durava 164 minuti. Centosessantaquattro minuti. Mi saranno sembrati meno di cento, ne voglio ancora e continuo a percepire la mia realtà con gli occhi di Mason, e anche con quelli di Ellar. Nei giorni seguenti penso a cosa sia riuscito alla perfezione e cosa potesse essere considerato più debole. La sorella di Mason, forse (la figlia di Linklater, divertente da bambina ma più anonima da grande, a dispetto di un Ellar Coltrane che diventa sempre più personale, originale e attraente pur attraversando i classici momenti adolescenziali “brutti”). Oltre all’attrice, anche il personaggio, che sembra rimanere uguale a se stesso senza evolversi, come invece accade a Mason, che progredisce esponenzialmente e infine accoglie gli insegnamenti forse maldestri ma genuini del padre, nella sua idea di libertà, di soddisfazione personale, di creatività. Certi spunti come i figli del secondo marito, lasciati da parte a seguito delle vicende raccontate. Poi mi domando se siano davvero debolezze. Ci sono famiglie in cui i figli non crescono come dovrebbero, o vengono abbandonati al loro destino con un padre alcolizzato. Succede così, è la vita vista dall’alto e in maniera essenziale, senza giudicare e senza parteggiare. È vita grezza, non sono debolezze di sceneggiatura, raffinarle con la scrittura cinematografica le priverebbe dell’essenziale, del loro nucleo di genuinità. Non sono debolezze, ne sono sicura. Ma dovrei chiedere a Mason. Forse anche a Ellar.

 

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