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The Old Man

Regia di Ermek Tursunov vedi scheda film

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La recensione su The Old Man

di OGM
7 stelle

Il vecchio e la steppa. Come nel celebre romanzo di Ernest Hemingway, lui è solo, in mezzo ad uno spazio vuoto e sterminato. Ma questa volta la sua barca è un cavallo, il suo marlin è un gregge, ed il suo nemico è il lupo. Nel film di Ermek Tursunov l’immagine è anzitutto asprezza; è una speranza nascosta e sofferta che indossa le rozze vesti dei cacciatori e dei pastori siberiani, degli uomini che lottano contro il freddo ed un ambiente tanto avaro di risorse quanto selvaggio e spietato. Il protagonista, il cui nome significa novembre, ha il volto scavato dagli anni e dalla fatica di sopravvivere in un luogo in cui tutto deve essere duramente conquistato. Se il corpo  è appesantito dal passare del tempo e dagli abiti spessi, la sua mente, però, si mantiene leggera, mentre vola lontano,  verso le leggende del calcio sudamericano o verso i teneri ricordi di infanzia. Le sue pecore sono numerate sul dorso, come i giocatori di una squadra, e si chiamano Rivellino o Garrincha. Poche, innocenti illusioni giocose cercano di illuminare una lunga vita avventurosa che si sta spegnendo: le partite in tv ed i sogni in cui si rivede bambino, nell’atto di guardare la madre che accudisce gli agnellini. L’incanto dal vago sapore disneyano riesce comunque a mantenersi entro i confini di una poesia adulta ed amara, dai toni tiepidamente soffusi che ben si addicono alla rarefazione delle terre sperdute, estranee alla civiltà,  in cui anche il segnale della televisione giunge a stento. L’anziano Novembre si smarrisce, un giorno, in mezzo alla nebbia. Non trova più la strada di casa, ed è quindi costretto a vagare alla cieca, difendendosi dal gelo e dalla fame, e facendo di tutto per proteggere se stesso ed i suoi animali dagli attacchi dei predatori. Quell’uomo combatte e prega. Cammina e riflette. La sua esistenza, caduta improvvisamente nel labirinto della disperazione, trova il modo di adeguarsi al ritmo discontinuo degli eventi naturali, alla luce che si alterna all’oscurità, al bello e al cattivo tempo, agli attimi di pace che preludono ad una nuova ripresa della guerra. Il suo respiro è scandito, a seconda dei momenti, dall’incalzare dei pensieri o dalla furia della battaglia, del corpo a corpo con le bestie feroci, delle corse forsennate attraverso il nulla, della drammatica concitazione delle situazioni estreme, in cui l’inizio e la fine si uniscono, tanto che si possono toccare con mano, ed il pericolo circonda in ugual misura la nascita e la morte.  La minaccia si concretizza, sullo schermo, in visioni laceranti, nelle quali l’azione si compie sempre lungo il contorno cruento e sottile con cui la distruzione si fa avanti nella realtà, aprendovi squarci dai bordi taglienti ed irregolari, sadicamente arabescati dal primitivo affanno di salvare la pelle. Shal si presenta come il racconto ruvido e tormentato che rimane, ai margini del foglio, quando l’epica viene spogliata dei suoi eroici fregi per essere data in pasto alla desolazione.  E lì la ritroviamo, stanca, ferita, confusa, eppure immune dalla voglia di arrendersi.

 

Questo film ha rappresentato il Kazakistan agli Academy Awards 2014.

 

  

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