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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Regia di Roy Andersson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

di omero sala
8 stelle

 

Il film, disperato e disperante, inizia con tre “incontri sulla morte” grotteschi, insopportabilmente caustici, atroci ed esilaranti nello stesso tempo: nel primo, un anziano crepa d’infarto per lo sforzo di aprire una bottiglia di vino mentre la moglie in cucina gli gira la schiena continuando a spadellare; nel secondo, una vecchietta agonizzante avvinghiata alla sua borsa lotta coi figli che tentano di sottrargliela; nel terzo, la cassiera di un bar offre agli avventori presenti la consumazione dell’ordinazione - già pagata - di un pover’uomo schiattato davanti al bancone.

A seguire, numerosi altri quadri slegati e incoerenti, ambientati in scenari metafisici, zeppi di personaggi assurdi imbalsamati in situazioni surreali: trentanove piani-sequenza simili a tableaux vivants, ripresi da una macchina fissa, in campo lungo; ambientati perlopiù in interni disadorni e freddi come camere mortuarie, in stanze nude riprese quasi sempre di sghembo; mentre i pochi esterni si chiudono su scorci di strade deserte delimitate da muri che paiono fondali di teatro.

Rari spicchi di cielo appaiono talvolta incorniciati da finestre sullo sfondo di scene lugubri o “casualmente” riflessi da vetrine.

 

Come sul palcoscenico di una recita di paese, i protagonisti stanno fermi al centro della scena, anonimi nei loro vestiti spenti, attenti a non girare le spalle al pubblico; sono circondati da comparse inutili, figuranti che fanno da sfondo senza interloquire; si muovono come automi, lenti e imbarazzati, gesticolando impacciati e fuori tempo; hanno facce scialbe; pronunciano senza convinzione frasi insensate o battute insignificanti, come se si attenessero a un copione scompaginato e incompreso; si rivolgono a interlocutori disattenti, in dialoghi fra sordi (come nelle pièce di Jonesco o di Beckett); e la recitazione raggiunge picchi di inespressività inimmaginabili, come nelle parodie dei film polacchi di Leonardo Manera.

 

Tutti i personaggi, nessuno escluso, trasudano un malessere esistenziale soffocato dalla rassegnazione e inondano l’aria di una dolenza ottusa e anestetizzata; tutti vivono in una condizione di aridità affettiva; tutti sono attanagliati da un intorpidimento emotivo, oltre che etico, proprio di chi è inerme di fronte alle contrarietà della vita.

Anche quelli che in alcune brevissime sequenze paiono testimoniare una possibilità di scampo dalla desolazione mandano messaggi ambigui: i bambini che giocano con le bolle di sapone e gli innamorati sulla spiaggia che sembrano recitare la normalità, inseriti in un contesto deprimente e saturo di cinismo, non fanno che sottolineare la fragilità della gioia, la solitudine degli amanti e la precarietà della vita.

 

Paradigmatici appaiono Jonathan e Sam, i personaggi che tornano più volte nell’infilata dei diversi episodi. I due - che di professione sono rappresentanti di commercio di “prodotti per far ridere la gente” - girano per il paese tentando di collocare la loro squallida merce, ma lo fanno senza convinzione, macerati dalla depressione; e fra i gadget proposti c’è un paradossale “sacchetto delle risate” che i due disgraziati presentano con un’espressione catatonica, da morti dentro.

Sublime l’idea di Andersson di inserire brevissimi ricorrenti siparietti nei quali presenta diversi personaggi al culmine della disperazione  che parlando al telefono dicono al loro interlocutore “sono contento di sentire che stai bene” (più sconvolgente fra tutti, il vecchio con una pistola in mano che sta per suicidarsi).

 

Il gioco della ricerca delle fonti di ispirazione o delle analogie potrebbe portarci a ripercorrere secoli di storia dell’arte e decenni di storia dello spettacolo: da Bruegel (con i suoi uccelli che sul ramo osservano il brulicare insensato degli umani) a Bosch (con le sue incredibili macchine di tortura) fino ad Hopper (per le inquadrature desolate e la rappresentazione della solitudine); da Bergman (altrettanto disperato ma meno cinico del compatriota Andersson) a Buñuel (per la sardonica rappresentazione della borghesia e per certe inspiegabili digressioni ucroniche) fino ai nostri ineffabili Ciprì e Maresco (con la loro estetica del degrado). 

 

 

Scorrono i titoli di coda, si accendono le luci in sala. Gli spettatori fluiscono verso le uscite con lentezza, e paiono usciti dallo schermo.

Mi guardo in giro e mi muovo con la terribile sensazione di essere osservato da un piccione imbalsamato, appollaiato da qualche parte fra i pannelli fonoassorbenti.

 

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