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Eisenstein in Messico

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Eisenstein in Messico

di ed wood
8 stelle

Peter Greenaway era quello che un tempo diceva che “il cinema è troppo importante per essere lasciato nelle mani dei narratori di storie”, qualcosa del genere. Caustico fondamentalista di un cinema sempre al pieno delle (quando non oltre le) proprie potenzialità espressive, nemico giurato della Settima Arte come mero romanzo filmato, cine-saggista intellettualista con la mania della tuttologia, il gallese appartiene alla classica categoria del “prendere o lasciare”.

 

Questa volta, però, pare aver cercato un compromesso con una idea di cinema più tradizionale: la sua ultima fatica, “Eisenstein in Messico”, non rinuncia certo agli intriganti/odiosi artifici con cui è solito fare a pezzi la sintassi filmica convenzionale (split-screen in 3 parti, sovraimpressioni, montaggio sonoro, giochi di specchi, costante ricerca di tridimensionalità come a voler violare i limiti ottici del cinema stesso, utilizzo di immagini di repertorio, piani-sequenza truccati e via inventando), ma li tempera con tutto ciò che ha sempre detestato: lo storytelling.

 

Ebbene sì, “Eisenstein in Messico” è anche, fra le mille altre cose, una “storia”. Quella dell’Eistenstein-uomo, prima ancora che cineasta, dandy logorroico e spavaldo esternamente, tanto quanto fragile e insicuro nella propria interiorità. C’è un occhio alla commedia brillante (con tanto di british humour, ovviamente) e un altro al melodramma a tinte forti (come nel finale struggente) a bilanciare i consueti slanci verso un cinema-saggio dal moto perpetuo e dalla forma instabile, in febbrile ed indefessa digressione verso materie sempre più debolmente correlate all’assunto di partenza (ammesso che ce ne sia uno solo, e non mille).

 

Questa mancanza di punti di riferimento è, ancora una volta, croce e delizia di Greenaway, che però questa volta riesce calmare il bombardamento di stimoli visivi, sonori, gestuali e letterari, per far emergere (con un certo, sorprendente grado di empatia) alcuni punti cardine dell’Eisenstein-pensiero (molti dei quali scoperti o confermati nell’intensa e tumultuosa esperienza messicana): lo schianto della pretesa “formalista” di intellettualizzare/razionalizzare/smontare/riassemblare qualsiasi aspetto del reale (e dell’arte) contro il desiderio incontrollato della carne, la pulsione folle e criminale, la violenza dei corpi posseduti nell’amplesso; il fascino terrorizzante della Morte e delle sue icone (le antiche sculture pre-colombiane, ammirate nel buio di un sotterraneo); la tendenza ad un enciclopedismo che sottenda alla costante ricerca di collegamenti fra una disciplina e l’altra, secondo l’idea che tutte le branche del sapere siano collegate fra di loro. In quest’ultimo aspetto, la vicinanza con Greenaway è evidente.

 

Dove invece il gallese prende le distanze dal sovietico si ritrova invece nel distacco dalla materia politica, nella dimensione squisitamente ludica con cui Greenaway concepisce la sua peculiare idea di “formalismo”. Per molti potrà sembrare il solito sterile catalogo di citazioni, quasi un giochino da nerd. Per gli amanti del grande cinema e per chi conosce la vicenda di Eisenstein, è tuttavia indubbiamente gratificante sentire il suo personaggio (uno strepitoso Elmer Back) disquisire di quanto geniale sia stato Walt Disney (“l’unico regista che creava forme dal nulla”) e di quanto lacrimoso fosse invece il cinema del connazionale Pudovkin. Eccetera. Va anche detto, a onor del vero, che Greenaway stesso è il primo ad ironizzare sulla petulanza del protagonista (metafora dell’enciclopedismo logorroico greenaway-iano); inoltre, le conversazioni che Eisenstein tiene con il suo amante-guida messicano spesso evitano la trappola del “fine a se stesso”, facendosi ora dolenti (il dialogo sui personaggi famosi deceduti, nel silenzio del cimitero) ora spassosi (la lezione sulla Storia della sifilide durante la penetrazione anale, degna dell’ultimo Von Trier). La suddetta trappola del virtuosismo gratuito viene evitata anche in altre occasioni: ad esempio, il carrello circolare a 360 gradi con cui ci viene mostrata l’arrogante moglie del producer Upton Sinclair “accerchiare” il povero Sergeij è un limpido esempio di forma che significa il contenuto.

 

E’ un Greenaway dunque che accontenta sia chi pretendeva il solito, irritante Greenaway, sia i fan di Eisenstein (che dovranno comunque mandar giù il colpo basso di non mostrare neanche una sola sequenza in cui il Maestro gira “Que Viva Mexico”…ma che ci volete fare? E’ pur sempre Greenaway…), sia chi voleva una “storia” (di passione, sofferenza, amore). Un cinema che appaga sensi ed intelletto (soprattutto il secondo, a differenza dei “Racconti del cuscino”, per citare uno dei capisaldi del regista britannico) e che non risparmia particolari sgradevoli o comunque espliciti (qui mosche, vermi, vomito, sangue, oltre a frequenti nudi frontali, a scontrarsi con l’eleganza delle scenografie): tutte caratteristiche affini alla tecnica dello stesso Eisenstein, che inseriva premeditatamente inquadrature shock nel “montaggio delle attrazioni” che caratterizzava le sue opere. In definitiva, a pensarci bene, “Eisenstein in Messico” sembra quasi uno di quei biopic folli, barocchi e spregiudicati che il grande Ken Russell (anche lui, guarda caso, britannico) realizzava negli anni 70.

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