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Un ragazzo d'oro

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Un ragazzo d'oro

di OGM
6 stelle

Una depressione rétro. Un film dall’anima in bianco e nero, come le foto della sua locandina. Davvero non ci voleva quel finale da fiction, venuto ad interrompere il flusso lento dei pensieri vacui, della follia che avanza in mezzo al vuoto del ricordo. Un uomo muore, e non resta niente. Al figlio, che con lui ha sempre avuto un rapporto orrendo, non ha lasciato nemmeno l’ombra di un rimpianto. Se ne è andato così, Achille Bias, autore di filmacci che non sono mai piaciuti a nessuno, e di cui Davide, aspirante scrittore senza fortuna, ancora si vergogna. È morto e basta. Ha detto un no definitivo ed incomprensibile, ma in fondo estremamente coerente, paragonabile all’ennesimo rifiuto che quel ragazzo ha appena ricevuto da parte del responsabile di un’agenzia letteraria. I suoi racconti non saranno pubblicati, i suoi sogni non si realizzeranno. In tutto ciò non si coglie il senso. Ci sono sconfitte che scrivono semplicemente la parola fine, così, senza pronunciare accuse, né incoraggiare alla rivincita. Davide si specchia perfettamente in quel buio che è pietosamente venuto a dare il cambio ad un eterno grigiore, a quell’inconcludente agonia che si trascinava, nel tempo, fra l’incomprensione generale. Lui e suo padre sono gli antieroi destinati a non conoscere mai un inizio, mentre il mondo non ne vuole sapere di chiudere le sue faccende per badare a loro. Silvia non riesce a fare l’amore con Davide, perché ha ancora in mente il suo ex. E il produttore Giuseppe Masiero non è capace di mettere da parte i suoi discutibili gusti cinematografici, per onorare degnamente la figura dell’amico scomparso. È in questa indicibile sventura che Davide si scopre, improvvisamente, tanto simile al suo odiato genitore. La disgrazia ereditaria è credere con tutto il cuore  a qualcosa che gli altri ignorano o disprezzano. Il giovane si abitua a vivere in questa certezza, lasciando che le sue giornate siano scandite dall’inutile monotonia di un cammino intrapreso soltanto per contare i passi. Riccardo Scamarcio interpreta una visione della realtà appannata e inebetita, muovendosi sul binario morto in cui si arena lo spirito creativo, non appena si arrende alla propria autoreferenzialità. Attraverso l’aria ferma, spogliata del suo slancio ispiratore, la musica si diffonde a stento, come il residuo di un suono che resista al tramonto della poesia. Questo racconto comincia a fare male nel momento in cui smette di sembrare un’artificiosa messinscena della noia. Il presente non c’è, perché è troppo intento ad inseguire un passato di cui giungono pochi frammenti di echi sbiaditi: un’atmosfera rubata a un vecchio giallo all’italiana, qualche fotogramma di uno scult anni settanta, un rarefatto bisbiglio che rimanda al romanticismo lacrimoso del nostro cinema di un tempo.  Pupi Avati riporta indietro le lancette con deferente sobrietà, e con la fatica di chi, per una volta, si accorge di essere giunto troppo tardi all’appuntamento con la storia. Le ultime tracce di ciò che vorrebbe rivivere sono svanite. La nostalgia ha perso per sempre le pagine della memoria che tanto amava sfogliare. Non se ne leggono più le parole, ridotte a sfumate macchie di colore.  Forse non bastano questi aloni per costruire un racconto. Ma il discorso imbastito ci ferisce, con la sua incompiutezza, come la rozza crudeltà di una lama spuntata. 

 

Riccardo Scamarcio

Un ragazzo d'oro (2014): Riccardo Scamarcio

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