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God's Pocket

Regia di John Slattery vedi scheda film

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La recensione su God's Pocket

di OGM
7 stelle

Philip Seymour Hoffman è Mickey Scarpato. Un rivenditore di carne che, a volte, si procura la merce rubando. Ha una moglie giovane ed un figliastro sbandato, che si imbottisce di pasticche e gira con un coltello. Vive nel quartiere chiamato God’s Pocket, ma non è originario di quel posto. E forse è proprio questo il problema. Venendo da fuori, lui non può capire. Gli sfuggono le cose che, tra la gente del posto, sono considerate brutte, e possono davvero fare male. Basta una parola storta per scatenare una tragedia. Mickey non sa quanto sia facile morire, in quell’angolo dimenticato di una grande città americana. Si può addirittura essere uccisi due volte, per una serie di stupide coincidenze innescate da una mentalità che procede a suon di bevute, chiacchiere da bar,  affari loschi, scommesse sui cavalli. Tutto è sporco, in quel calderone di istinti primitivi, dove il sangue scorre facilmente, anche se la posta in gioco è quasi sempre bassa, commisurata alla dilagante miseria umana. A quel sudiciume si può magari guardare con lo sguardo analitico di chi, con gli occhi del letterato, riesce a scorgervi un misterioso barlume di ragione, che può addirittura tentare di farsi poesia. Richard Shellburn ne scrive, su quotidiano locale, con parole crude, ma nobili, e dunque distanti dalla realtà. Mickey, a sua volta, si illude di poter sopravvivere, di potersi confondere in mezzo alla folla, di essere l’estraneo poco appariscente a cui nessuno bada. Invece è impossibile tirarsi fuori da un mondo che ha da sempre i suoi maledetti guai, e ti ci tira dentro a forza. Questa storia, tratta dall’omonimo romanzo di esordio di Peter Dexter, presenta l’ambiente come un’energia capace di forgiare il carattere delle persone, ma soprattutto quello del destino, a cui sa conferire una particolare cadenza, sarcastica senza riflessione, beffarda fino allo sfinimento. Compare qui la stessa sociologia tentacolare che si ritroverà in The Paperboy, un racconto palustre in cui gli effluvi putrescenti delle acque stagnanti si infiltrano nella sostanza morale, impregnando prima i tessuti del corpo. Protagonista è, in entrambe le vicende, la carne, sempre dilaniata e sanguinante, ma di consistenza variabile: molle e umida nella campagna della Florida, fredda e rigida nel contesto urbano del nord degli USA. La morte, nel secondo caso, è l’immobile punto di partenza verso cui tutto tende a ritornare, chiudendo il cerchio intorno a chi cerca di eluderla, o di riportarla, semplicemente, al normale corso degli eventi. È la costante che continua a ribadire la propria invincibile presenza, tra i folli e i saggi, tra i vecchi e i giovani, tra i forti e i deboli. Non si salva nessuno, né col pianto, né col riso, in questo dramma che, come in una black comedy, ha la sfrontatezza di esibire le proprie tinte fosche alla luce del sole, davanti agli occhi famelici di tutti i partecipanti al macabro gioco. Leon è morto ammazzato, e continua ad esserlo, e a costringere altri a seguire il suo esempio. Il suo cadavere, sbattuto fuori dalla porta, buttato per strada, è il centro di un discorso che si ripete sempre uguale, e si avvolge su se stesso, sbarrando la strada alle interpretazioni dei segni dei tempi.  La barbarie non è un prodotto della cultura, ma solo la naturale emanazione del senso della fine, che ti perseguita senza tregua, distruggendo tutti i tuoi sogni. A Mickey non rimane che arrendersi, e rassegnarsi ad essere, in quello strano inferno a cielo aperto, un diverso inutile e sconfitto. 

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