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Jersey Boys

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Jersey Boys

di LorCio
8 stelle

Tra i tanti approcci che si possono avere di fronte a Jersey Boys, proviamo a focalizzare l’attenzione su due di questi. Il primo è un approccio cinefilo, vagamente teorico, squisitamente intellettualistico, non privo di gusto. E cioè contestualizzare un film apparentemente inconsueto per i canoni di Clint Eastwood nel suo percorso cinematografico, partendo da una questione, diciamo così, formale: JB è l’apogeo del cinema classico, dell’unico cinema classico contemporaneo, forse – arrischiamo – dell’unico cinema contemporaneo possibile in quel mondo lì, con quella storia, con quell’esperienza artistica e tecnica.

 

Il cinema americano fortissimamente classico nell’accezione che ad essa ha attribuito Italo Calvino nel campo della letteratura: JB è un classico perché non è propriamente un film nuovo, ma un film la cui prima lettura si rivela in realtà una rilettura; un film che non ha mai finito di dire quel che ha da dire; che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno. Insomma, lodi infinite a Calvino, che ci fornisce la chiave di lettura forse più semplice ma anche più chiara: il vero miracolo della direzione di Clint sta proprio nel saper trovare il raro equilibrio tra autorialità ed intrattenimento, memoria collettiva e storia minima, singolo e massa, forma e contenuto.

 

E già, i contenuti. Che, sempre nell’approccio di cui sopra, si ricollega alla dicotomia appena citata sul rapporto tra singolo e massa. O meglio, ancor più nel particolare, è un altro capitolo del discorso eastwoodiano sul declino nazionale del sentimento della collettività, sul disfacimento del concetto di unione in una realtà problematica da cui non si riesce ad evadere subito. E quando ci si riesce, ecco il tema dell’ascesa, che è un po’ redenzione e un po’ via crucis, a seconda delle circostanze. Insomma, a voler essere inutilmente analitici, c’è tutto Eastwood in questo adattamento di un fortunatissimo musical di Broadway. Che in realtà finisce per diventare un non-musical perché del genere non ha la sospensione dell’incredulità (il modello è più affine al meraviglioso Walk the Line su Johnny Cash) ad eccezione del finale teatrale e danzante.

 

Comunque, tornando all’origine del discorso, c’è un secondo approccio da tenere in considerazione: quello empatico. JB è un film genuinamente empatico che riesce nell’impresa né di ammiccare né di arruffianarsi il pubblico prediligendo la strada del cinema popolare (branchia cui appartiene perlomeno in patria – ma è un film naturalmente americanissimo): coinvolgere. Come coinvolge? Con la spartizione del punto di vista (Tommy, Nick e Bob si alternano alla narrazione, conferendo ad ogni sezione il loro punto di vista – leaderismo incontrollato, repressione emotiva, talento ambizioso – con il caso isolato di Frankie che, essendo il protagonista, c’è pressoché sempre), l’evocazione di un mondo perduto e votato di per sé alla nostalgia (l’utilizzo massiccio di décor e canzoni d’epoca) e le dispute tra i componenti della band (rappresentazione metaforica dell’impossibilità di un accordo).

 

Il cinema popolare classico. Apoteosi della malinconia dei bei tempi andati, celebrazione nostalgica da parte del conservatore Eastwood che non può non guardare indietro per andare avanti. Al netto di qualche scompenso narrativo in una sceneggiatura che sì funziona ottimamente ma risente di qualche ellissi di troppo, è un film meraviglioso per la sua costante capacità di stupire anche coloro che già conoscono la storia. Splendida fotografia decolorata di Tom Stern. Il quartetto dei protagonisti è eccellente e sa coniugare divertimento e commozione (il finale è solo lacrime), ma lodi infinite al divino Christopher Walken.

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