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Sentieri selvaggi

Regia di John Ford vedi scheda film

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21thcentury schizoid man

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Sentieri selvaggi

di 21thcentury schizoid man
10 stelle

E’ inutile girarci attorno: “Sentieri selvaggi” è il miglior western di tutti i tempi. Nella storia del genere non ne esiste un altro che possa competere con esso. Certo, in cento e passa anni di cinema di western fantastici ne sono stati fatti tanti, dal paradigmatico “Ombre rosse” (1939) fino al crepuscolare “Gli spietati” (1992), passando per “Sfida infernale” (1946), “L’uomo che uccise Liberty Valance” (1962), “Vera Cruz” (1954), “Un dollaro d’onore” (1959), “Il fiume rosso” (1949), “Il mucchio selvaggio” (1969), “Pat Garrett e Billy the Kid” (1973), “L’uomo di Laramie” (1955), “Terra lontana” (1955), “Mezzogiorno di fuoco” (1952), “Johnny Guitar” (1954), “C’era una volta il West” (1968), “Balla coi lupi” (1990) e molti altri, ad esempio l’imponente “I cancelli del cielo” (1980), il commovente “McCabe and Mrs. Miller” (1971) e il malinconico “Jeremiah Johnson” (1972), che non stiamo qui a citare per non tediarvi, ma “The Searchers”, questo il titolo originale del mitico film diretto da John Ford nell’anno di grazia 1956, ha una marcia in più rispetto a tutti gli altri.

C’è poco da fare: gli altri western, per quanto siano notevoli, devono accontentarsi di lottare per il secondo posto. “Sentieri selvaggi”, inoltre, è talmente grande da trascendere il genere di cui rappresenta il punto più alto, tanto grande da poter essere considerato come uno dei film più belli che siano mai stati girati e rivaleggiare quindi con opere straordinarie che hanno segnato indelebilmente la Storia del Cinema come “Quarto potere” (1941), “Il fascino discreto della borghesia” (1972), “La morte corre sul fiume” (1955), “2001: Odissea nello spazio” (1968), “La grande illusione” (1937) ecc. Maestri del calibro di Jean-Luc Godard, Wim Wenders, Paul Schrader, Michael Cimino, Martin Scorsese e Steven Spielberg vanno in visibilio ogni volta che lo (ri)vedono. E il loro entusiasmo è pienamente giustificato e condivisibile: “Sentieri selvaggi”, infatti, è una pellicola maestosa che trasuda epicità da ogni singolo fotogramma. In tanti, dal George Lucas di “Guerre stellari” (1977) al Lawrence Kasdan di “Silverado” (1985), lo hanno citato e copiato, ma nessuno è mai riuscito ad eguagliarlo.

E di Ethan Edwards, cosa vogliamo dire? Francamente non ci sono aggettivi per definirlo. Nonostante abbia un pessimo carattere, non riusciamo a volergli male. In un’ipotetica classifica dei personaggi più belli del cinema americano, contenderebbe la prima posizione al protagonista de “Il buio oltre la siepe” (1962), Atticus Finch. Ed è curioso notare come i due siano completamente diversi: Ethan è un uomo collerico e vendicativo, mentre Atticus è una persona ligia e perbene. Il primo è animato da sentimenti bellicosi e non esita a ricorrere alla violenza; il secondo, invece, non farebbe del male nemmeno a una mosca. Magia del cinema, che ci fa adorare allo stesso modo due personaggi che non hanno nulla da spartire l’uno con l’altro.

Tornando a “Sentieri selvaggi” (a proposito: dato che la sciagurata versione italiana stravolge molti dialoghi, per apprezzarlo appieno vi consigliamo di guardarlo in lingua originale), è un western, tratto dall’omonimo romanzo di Alan Le May e sceneggiato da Frank S. Nugent, omerico e complesso, superbamente fotografato da Winton C. Hoch e splendidamente musicato da Max Steiner, ambientato in scenari naturali meravigliosi (tra cui la leggendaria Monument Valley), pieno di personaggi (come il vecchio e suonato Mose Harper [Hank Worden]) e scene (tipo la prima e l’ultima) memorabili, che comincia in Texas nel 1868 e che racconta di una lunga e sofferta ricerca condotta da un ex soldato, Ethan Edwards (un gigantesco e granitico John Wayne), che ha combattuto la Guerra di Secessione nelle fila dell’esercito sudista e che all’inizio del film, in una scena entrata giustamente nella leggenda (quella della porta che si apre sul paesaggio sconfinato da cui proviene Ethan), vediamo giungere da lontano in sella al suo cavallo.

Ethan è un solitario, è un tipo rude e scontroso e, per usare un eufemismo, non sopporta gli indiani. Il motivo per cui li odia così tanto lo scopriamo quando il regista inquadra una lapide su cui vi è inciso un epitaffio che recita: “Qui giace Mary Jane Edwards uccisa dai Comanche il 12 maggio 1852. Una brava moglie e madre nei suoi 41 anni”. Mary Jane era la madre di Ethan, ecco spiegata la ragione per cui egli disprezza gli indiani (questo e la celeberrima scena in cui Ethan pronuncia la famosa frase “Let’s go home, Debbie” dovrebbero bastare per smontare le accuse di razzismo mosse da alcuni critici contro il film).

Tre anni dopo aver partecipato alla guerra decide di fermarsi nella fattoria di suo fratello, Aaron (Walter Coy), e sua cognata, Martha (Dorothy Jordan), della quale Ethan è innamorato, peraltro ricambiato (il loro amore non viene mai esplicitato ma solo suggerito attraverso gesti come quello del bacio che lui dà sulla fronte di lei; sulla loro storia d’amore si sarebbe potuto realizzare un intero film, a dimostrazione di quanto sia complessa e stratificata questa pellicola). In una bellissima scena, Ethan solleva la piccola Debbie (Lana Wood da bambina, Natalie Wood da adolescente) scambiandola per sua sorella maggiore, Lucy (Pippa Scott), e quando, mentre lui è impegnato altrove, i Comanche attaccano il ranch di suo fratello, ammazzando quest’ultimo, sua moglie e il figlio maschio della coppia, Ben (Robert Lyden), e rapiscono le due bambine, Ethan si mette a cercarle con l’aiuto non richiesto di un mezzosangue, Martin Pawley (Jeffrey Hunter), che Aaron aveva accolto nella sua famiglia trattandolo come se fosse suo figlio ma che invece Ethan si rifiuta di considerare come suo nipote per via delle sue origini indiane.

Durante l’affannosa ricerca il corpo di Lucy viene ritrovato senza vita; Debbie, invece, non si sa dove sia. Passano i mesi, le stagioni e gli anni (stupendo il lungo pezzo in cui lo scorrere del tempo ci viene mostrato tramite la lettura di una lettera scritta da Martin), e quando la speranza di ritrovarla si sta affievolendo, si scopre che è diventata la compagna del capo indiano che ha sterminato la famiglia della giovane, Scar (Henry Brandon). Quando la rivede, Ethan non la considera più come sua nipote, ma come un’indiana a tutti gli effetti, perciò, in una delle scene più drammatiche del film, arriva al punto di volerla uccidere, ma, per fortuna, Martin riesce ad impedirglielo.

L’esercito, intanto, prepara l’attacco all’accampamento di Scar, e Martin si offre volontario per recuperare la sua sorellastra prima che intervengano i soldati. Si arriva così alla scena culminante, quella in cui si tocca l’apice emozionale e che farebbe commuovere anche le pietre; Ethan insegue Debbie, Martin teme il peggio (e anche noi, a dire la verità), ma quando si ritrova di fronte alla nipote, il cuore di ghiaccio di Ethan si scioglie e, in uno dei momenti più struggenti che si siano mai visti, la solleva, come aveva fatto molto tempo prima, quando lei era solo una bambina e lui l’aveva scambiata per Lucy, la prende in braccio e le dice: “Andiamo a casa, Debbie”. Lei, superato lo spavento, lo abbraccia stringendogli il collo.

A quel punto le lacrime scorrono a fiumi, il film sta per finire, tutti sono felici (Mose, finalmente, ottiene la sedia a dondolo che desiderava tanto, e Martin potrà sposare la ragazza di cui è innamorato, Laurie Jorgensen [Vera Miles]; per questi ultimi due vale lo stesso discorso fatto in precedenza per Ethan e Martha, ossia che anche sulla loro relazione si sarebbe potuto creare un intero film), tranne uno. Indovinate un po’ chi? Ethan, naturalmente. Il suo compito è finito, è riuscito a ritrovare Debbie e a riportarla a casa sana e salva; ma lui è un’anima errante che vaga per il mondo, e dato che non ha intenzione di mettere radici da qualche parte, alla fine, nell’ennesima (ormai abbiamo perso il conto) scena da pelle d’oca, invece di entrare in casa insieme agli altri, si ferma sull’uscio della porta tenendosi il gomito del braccio destro con la mano sinistra (come era solito fare Harry Carey, interprete di tanti film di Ford), poi si gira dando le spalle alla macchina da presa, e infine si allontana verso l’ignoto. Addio, Ethan, e buona fortuna. Mentre lui se ne va chissà dove e la sua sagoma diventa sempre più piccola ai nostri occhi, la porta si chiude. Fine. Brividi. Commozione. Le lacrime scendono copiose e si mescolano agli applausi. Tra la porta che si apre nel favoloso incipit e quella che si chiude nell’altrettanto favoloso finale ci sono centodiciannove minuti di cinema strabiliante. Giù il cappello, signori. Ford e Wayne nel regno dei cieli. 

 

http://starless1979.wordpress.com./

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