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The Long Way Home

Regia di Alphan Eseli vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Long Way Home

di lostraniero
8 stelle

“Oscura è la natura della cose. Così che certamente la temiamo.

E bizzarra ci viene la sorte di pensare che sia da dare al dente allineato del leone, della tigre il mantello nella radura, al sonno finto del caimano, dell’aquila l’artiglio o allo strisciare di una serpe sugli alberi, il crudele scarto della storia.

Mai che un mulo lo sia, il predestinato o l’escluso. Il testimone che ha il peso dell’accadere e che sia anche l’ignara vittima dei fatti. Come accettare che quest’ombra, scura vagabonda, dei centrati filari e delle piazze da mercato, questo signore dal puzzo contadino che sfoca nel vostro guardare i campi e le mimose nei cortili, possa aprire bocca?... Sissignori, scassinare il silenzio dei suoi denti e alla fine dirvi cos’è stato...

Ma io non so da quale senso mi viene questa condanna. Ma io posso. Riconoscere maledette ore. Riascoltare i muscoli, serrare così il corpo e offrire nuovamente il mio racconto... Dirvi ciò che fu di me, di loro... e di voi”

 

? dall’ “Opera del mulo”

 

                                               *****************************

 

 

Tra le mappe della visione bellica, sulle dorsali del cinema dell’assedio e dell’abbandono, occorrerà che qualcuno segni pure quest’opera del regista turco Alphan Eseli. Un film, “Eve Donus: Sarikamis 1915”, che presumibilmente è nato nell’alveo di quel lungo teorema che – ad un secolo esatto di distanza – vuole rileggere/celebrare/osservare il primo conflitto mondiale, ma che a montaggio concluso risulta evidente che alla fine ne diserti molti luoghi comuni. Così come è chiaro che ne visiti certi altri.

Una dicotomia genetica, se poi è davvero possibile avvicinare il racconto per immagini alla cellula umana, che è marchiata dal titolo stesso. Un ‘ritorno a casa’ privato che, in maniera tanto ieratica quanto drammatica, deve fare i conti con il corso antico della storia dei popoli e delle nazioni. Da un lato una fuga tra il manto disturbante della neve – che ottunde la dimensione dello spazio e amplifica la fatica del tempo – tanto degna di un canto popolare turco, che ci aspettiamo spunti da un momento all’altro un asik con il suo fido saz a sei corde, ed inizi a cantare le gesta disperate di Saci Bey, della nobile Gul Hanim e di sua figlia Nihan. Dall’altro, l’inumana dote di abominio e di desolazione che si porta dientro (e dentro) il disastro della battaglia dei monti Allahu Akbar, combattuta nell’inverno tra il 1914 ed il 1915 tra le truppe russe e quelle ottomane guidate da Enver Pascià e da queste persa con una vera e propria disfatta.

Tra questi due eucarioti, attorno a questo dolente corredo cromosomico, il regista turco compone una lettura intima, quasi rappresa della storia ma che ha il pregio di assumere in sè tutto l’orrore e l’angoscia di un intero continente in guerra. Con l’ausilio di varie entrate in scena, scandite con una sapienza non comune, ecco che il film si anima delle sue diverse sequenze. Abbiamo il nucleo della borghesia più altolocata (i tre viaggiatori che si vedono fin dall’inizio) che con l’ausilio di un carro trainato da un mulo e di una carta disegnata a pastello, cerca di mettersi in salvo raggiungendo la città di Erzurum; poi, usciti fuori come topi da una cantina scavata sottoterra, si aggiungono ad essi due popolani, che ai signori sono legati tanto da grazia riverente quanto da ostile sdegno; in un terzo tempo, la scena si arrichisce dei due fanti (Sami e Mahmut), resi uno quasi cieco e l’altro già muto dalle lame e dalle pallottole della lotta. Infine, ma in fugaci sequenze che fanno sbirciare corpi goffi e malmessi, i banditi del bosco – veri ‘inventores’ del come si dipanerà la trama da lì in poi –.

Simboleggia così senza alcun simbolismo artefatto il film stesso, un arido confronto a danno concluso e disastro ottenuto, tra categorie sociali che il conflitto lo hanno fino ad allora vissuto in una sfera universale. I nobili nelle loro peregrinazioni da provincie meno sicure a quelle più sicure; i contadini caucasici nelle loro tradizionali rivalità di villaggio; i militari nei preparativi strategici e nelle effimere categorie della disciplina e del grado in pectore. Sulla neve, tra Kars e Divrigi, tutta questa pellicola collettiva viene erosa dal gelo, dalla fame e dall’istinto di sopravvivenza. Un paesaggio che ‘inghiotte’ le figurine scure, barcollanti; un paesaggio che a maggior beffa degli inconsapevoli viaggiatori del nulla, è candido ma è inzuppato di terrore sanguinolento. Non solo la strage di Sarikamis, ma anche l’assedio di Kizil-Tepe della guerra turco-russa del 1877, i massacri tra armeni e caucasici del 1600, via via fino a giungere alla guerra tra popolazioni pauliciane e lo stato romano cristiano ortodosso del IX secolo. Centinaia di migliaia di morti che afferrano per le caviglie i viaggiatori, rompono il giogo ai muli, succhiano l’acqua dei torrenti, tendono verso la terra gli alberi spogli. Annichilendo.

E proprio nella parte centrale del film (la migliore), questo lento, errante annientarsi per debilitazione e per incomprensione (la lunga attesa del bey prima di rimettersi in cammino, è frutto delle sue paure e dei fantasmi del suo passato), produce paura e terrore. Sostiene quasi un film che diventa, o si sospende nel non diventare, un vero cult di horror. Un certo racconto di vampiri isolati nella trappola del freddo e della neve, che erano uomini molto tempo prima ed ora sono spettri che vagano dentro le proprie coscienze. L’anemia bianca dei luoghi infetta i volti degli attori, depreda alla fine ogni speranza. Mutila il già mutilato e riconduce tutto all’inizio. Della fine.

 

L’ottima fotografia e qualche lieve sbavatura in fase di scrittura (dello stesso Eseli e di Serdan Tantekin), completano il quadro di un film notevole che vive di invenzioni portentose (il ‘gioco al massacro’ del bosco, ricorda i racconti dei samurai kurosawiani ma in un ambiente molto più indisponente e con una matrice estremamente più rabbiosa), come di mezzi passi falsi (il flashback finale che si scambia quasi per un flashfoward, che doveva finire in galleria ed invece spiega ciò che doveva rimanere sospeso).

Il mulo sfiancato, sepolto dalla neve e che io ho immaginato come lo spirito che aleggia sulla narrazione, sarebbe d’accordo cento volte almeno con me. Per favore qualcuno segnali questo film sulle mappe del cinema da vedere!

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