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Scipione detto anche l'Africano

Regia di Luigi Magni vedi scheda film

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La recensione su Scipione detto anche l'Africano

di hupp2000
7 stelle

Film assurdo quanto divertente. Luigi Magni ha fatto di meglio, a cominciare dallo strepitoso “Nell’anno del Signore” (1969). Anche se siamo distanti dalla raffinata ricostruzione di un’epoca storica, secondo me questo suo “Scipione” non va sottovalutato. Il regista riunisce un gruppo di attori d’eccellenza, da Marcello Mastroianni a Vittorio Gassman, passando per Silvana Mangano in un dei suoi ruoli comici più riusciti, Turi Ferro, Woody Strode e un sorprendente Ruggero Mastroianni, forse superiore al fratello nel fraseggio romanesco. Già, il romanesco. Considero Luigi Magni uno dei maestri del genere. Qui, come in pressoché tutta la filmografia del regista, il dialetto più utillizzato nella commedia all’italiana è centrale. Tutti i personaggi parlano romano come lo si parlava 40 anni fa, sostituendolo al latino dell’epoca in cui sono ambientati i fatti. L’effetto è spiazzante e, in fin dei conti, esilarante. Altrettanto surreale e ironico è l’aver scelto le vestigia di Roma Antica come teatro di una vicenda che si svolge nella città più moderna del suo tempo. La sceneggiatura dello stesso Luigi Magni è esile e volutamente anacronistica. I dialoghi tra i due fratelli Scipione (l’Africano e l’Asiatico), quelli tra Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, nonché le animate sedute del Senatus Romanorum rinviano più alla politica dell’Italia governata dalla Democrazia Cristiana con i suoi piccoli alleati negli anni ’60-’70 che alle vicende storiche oggetto del racconto. Si respira aria di partitocrazia, di diffusa corruzione a palazzo. E’ un’Italia ferma, ma ancora beneficiaria del recente boom economico. Significativa al riguardo la scena in cui gli schiavi si ribellano all’annuncio della loro rimessa in libertà: “C’eravamo abbituati, se stava così bene...”. Eseguono gli ordini con indolenza tutta romana, “magnano” pasta e fagioli, abbacchio a scottadito, sbevazzano e sembrano costantemente sul punto di intonare il classico “Ma che ce frega, ma che c’emporta...”. Nella tenzone recitativa e linguistica, Marcello Mastroianni supera nettamente Vittorio Gassman, in termini di spontaneità e prestazione dialettale. Il primo si esprime e si muove con naturalezza, in maniera colorita, a volte impetuosa, ma senza la magniloquenza e l’enfasi teatrale che hanno spesso caratterizzato i ruoli di Vittorio Gassman. Come è noto, Marcello Mastroianni si trovava a suo agio con vari accenti regionali. Lungo la sua carriera, è passato con nonchalance dal romanesco al siciliano, dal napoletano al romagnolo, ecc. ecc. Vittorio Gassman ha saputo essere un grandissimo lombardo, in particolare ne “La Grande Guerra” di Mario Monicelli, uno strepitoso romano nel “Sorpasso” di Dino Risi e un esilarante toscano nell’”Armata Brancaleone” anch’esso di Monicelli. Qui, nei panni di Catone, il suo romanesco sembra ancora influenzato da quest’ultima prestazione non romana e risalente a cinque anni prima. Divertente, ma un po’ gigionesco. Al contrario, di fronte all’eccezionale partecipazione di Ruggero Mastroianni in veste di attore, mi è sorto il rimpianto che non abbia proseguito in questa direzione. Certo, accanto a cotanto fratello, doveva essere dura. Merita poi di essere citato il piccolo ruolo di Turi Ferro nei panni di Giove Capitolino, un dio dai poteri limitati come quelli di un presidente della Prima Repubblica, un dio disarmato di fronte al Fato. E’ probabilmente uno spreco relegare un artista talentuoso come Turi Ferro ad un partecipazione effimera, tra il comico e il grottesco, ma il suo Zeus romanizzato trova spessore e strappa più di una risata grazie all’inconfondibile doppiaggio di un Ferruccio Amendola in piena forma. Fatta salva la possibilità di una mia svista, mi è sembrato di riconoscere nel Numida Massirissa interpretato dal sempre granitico Woody Strode la voce di Renzo Montagnani. Benché nato ad Alessandria da genitori fiorentini, l’attore-doppiatore se la cava egregiamente. La colonna sonora di Severino Gazzelloni si inserisce elegantemente in questa commedia gentilmente strampalata. Un commento musicale anch’esso anacronistico, completamente fuori contesto, ma originale e gradevole.... come l’intero film, del resto.

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