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Piccola patria

Regia di Alessandro Rossetto vedi scheda film

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La recensione su Piccola patria

di OGM
6 stelle

La provincia che non c’è. Non più una comunità chiusa nelle sue manie e tradizioni, bensì un guscio aperto verso un mondo senza identità, in cui tutto si confonde. Nel film di Alessandro Rossetto un angolo del nostro Nordest si socchiude nella sua nebbiosa informità, per lasciarci intravvedere ciò che resta delle ideologie di quartiere, delle perversioni di famiglia, delle ribellioni di periferia. Quella che una volta era un’appartata terra di frontiera ora è uno soltanto uno degli innumerevoli luoghi affacciati sul caos; privato dell’assorta singolarità di un tempo, un lembo di Italia si scopre afflitto da un anonimo stordimento, pieno di una rabbia senza onore, e di una trasgressività senza genio. In questo ritratto privo di  vero colore locale, si intrecciano storie qualunque, di tradimento e pregiudizio, con amori proibiti e amori mercenari. Lo squallore della decadenza borghese è ridotto ad un formicolio multilingue, fra le cantilene del dialetto e le dure melodie degli idiomi stranieri. Nel garbuglio non esiste modo di vederci chiaro, ed inoltre non si ha la voglia di andare avanti, di crescere, di migliorare, di rendersi conto che per poter sopravvivere non si può più fare a meno di cambiare. Il disagio della stagnazione culturale mostra qui un volto cupamente popolaresco, in cui i complotti ambiscono ad essere sofisticati come intrighi di corte, però odorano di volgarità e disperazione. Il cinema della realtà contemporanea può essere volutamente grezzo e disorganizzato, aderente al fondo dissestato di una patria che ha perso i propri connotati affettivi, per trasformarsi in un primitivo campo di battaglia. L’annullamento dei valori è, esso stesso, un processo che è stato miseramente lasciato a metà, nell’incertezza sulla strada da prendere, e sulla scia di una buona dose di vigliaccheria. Siamo morbosamente attaccati al nostro triste pressapochismo, alla nostra chiusura mentale, e sono questi vizi della coscienza gli unici “beni” autoctoni che siamo disposti a difendere con le armi. Non ci rimane altro che dibatterci in quest’assenza di futuro, nella quotidianità in cui i conti non tornano, e che però è l’unico teatro in cui riusciamo ad interpretare il nostro ruolo, concreto ed ufficiale (la cameriera d’albergo) oppure fantasioso e segreto (l’amante ricattatrice). La città di media grandezza, né villaggio, né metropoli, dallo spirito né paesano, né cosmopolita, è adatta solo come approdo temporaneo, per i turisti di passaggio che soggiornano presso un albergo dotato di tutti i comfort; è invece pericoloso restarvi stabilmente, come chi vi è nato, e non conosce il resto dell’universo, o come chi vi è arrivato da lontano, povero di soldi ma ricco di speranza, ed ora cerca invano di integrarsi. La prospettiva ristretta di questo film è come un contenitore in cui si sia voluto inscatolare un campione della nostra malandata anima nostrana: il frammento di un’immagine dai bordi irregolari ed irrimediabilmente fuori fuoco, come il pezzo di una fotografia strappata. Nel quadretto improvvisato si avverte però la mancanza della luce, che indichi la direzione del tempo, e dia il senso della collocazione storica. Neanche la rovina può essere del tutto  sprovvista di contesto. Lo straniamento perde forza, se non è rapportato alla lucidità. E il cocktail di tante punte di nevrosi finisce, fatalmente, per risultare un po’ insapore.

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