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The Sacrament

Regia di Ti West vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Sacrament

di Kurtisonic
6 stelle

In una località sperduta una setta composta da qualche centinaia di persone si adegua all'orrore del proprio isolamento. Ma la realtà è più forte di ogni credenza. Darwiniano.

“..Se mettete la mano nella ciotola del cane non stupitevi se poi vi morde..” (Il Padre)

Joe Swanberg, Gene Jones

The Sacrament (2013): Joe Swanberg, Gene Jones

Uno dei limiti del mockumentary di Ti West è forse quello di aggiungersi un po’ tardi  a rimorchio della nutrita serie di titoli che hanno  creato un sottogenere cinematografico che se ha riscosso notevoli successi  ha denunciato con il tempo l’abuso dei  clichè narrativi e visivi che lo avvicinano troppo alla cronaca televisiva più arrembante, a quella strategia della presa in diretta dell’immagine come fonte e spiegazione della verità e del presente. Se dagli anni 90 il falso documentario si è imposto come un prodotto capace di giocare tra codici diversi, è altrettanto vero che la sua estetica riconoscibile espone lo spettatore ad una crasi comunicativa continua,  in cui documentazione, fiction, realtà e interpretazione percorrono una strada in precario equilibrio mettendo in discussione senso del vero e della misura, credulità e reale coinvolgimento. In The Sacrament, Ti West eclettico regista emergente, raddoppia  la posta in gioco, il film ricostruisce il notissimo massacro della Guyana altrimenti detto di Jonestown dell’ ormai lontano 1978, contrassegnato dal più grande suicidio di massa della storia, in cui morirono quasi mille cittadini americani e ad oggi per dimensioni di vittime statunitensi per fatti di sangue, è secondo solo agli attacchi alle Twin towers.  Pur prendendo spunto da quella vicenda il regista la sostituisce con una inventata, del tutto simile anche negli sviluppi e nelle modalità che ne decretarono la fine, usando la tecnica descritta del falso documentario e attingendo ad un “found foutage” della memoria storica in cui almeno per una buona parte del potenziale pubblico è impossibile non collegarsi a quegli avvenimenti. Tre operatori di un gruppo d’informazione indipendente che riversa in rete contenuti e notizie di difficile reperibilità, decidono di fare un servizio su di una misteriosa comunità dove ha trovato rifugio la sorella di uno di loro, Caroline,  la quale scrivendo una breve lettera col desiderio che il fratello la raggiunga sembra celare un’implicita richiesta di aiuto. La comunità di Eden Parish, così si chiama, isolata dal mondo esterno  è gestita da un pastore chiamato Il Padre, vi si professano in apparenza pace , serenità e devozione, ma la presenza della troupe determinerà l’esplosione del fragile equilibrio del luogo.  Abbastanza lontano dal climax stereotipato dell’horror, genere che per finalità e costruzione  si combina soprattutto con  successione lineare del crescendo pauroso per arrivare all’insostenibilità del terrore, e che nel mockumentary ha trovato una sua efficace rilettura,  The Sacrament prova a dividersi tra finta documentazione e vero cinema con un lavoro di regia piuttosto ragguardevole. Ti West dimostra una buona abilità nella gestione di ritmi e di tempi di regia, con sequenze in cui prevale la mano “amatoriale” che sottolinea l’irruenza e l’azione improvvisata, quanto con passaggi ben più solidi e significativi che riescono a trasmettere una sensazione di verosimiglianza molto efficace. La telecamera è il tramite determinante, la sua presenza media i rapporti  tra i vari personaggi  e se ne sente il suo peso in maniera totale, non c’è un momento in cui non se ne debba tenere conto , sia quando i giornalisti gli si rivolgono  e quando in modalità più cinematografica i personaggi dimostrano di interpretare un rituale a soggetto volto a restare impresso nel mezzo che non verso la coscienza degli altri. Il fulcro centrale è rappresentato dalla figura del Padre, e quando viene ripreso per un’intervista – sermone naturalmente davanti a tutta la comunità in festa per omaggiare gli ospiti, la ripresa alternata da il meglio di sè, pur non svelando troppo  lascia intravedere un personaggio inquietante e magnetico, profondo conoscitore delle strategie di comunicazione. Un limite voluto o meno invece sarà rappresentato dalla disattenzione verso gli altri protagonisti cioè i tre operatori, confinati nel loro ruolo di testimoni e non invece come portatori sani o “malati” di quei valori in opposizione a quelli professati e verificati all’interno della comunità. Il susseguirsi catastrofico degli eventi, che per la verità sembra un po’ affrettato,  non gioca a favore di uno sguardo più analitico ma per esempio la figura non secondaria di Caroline avrebbe forse meritato uno spazio diverso. Tuttavia sarà la scena finale a indicare come  posizionare su di una  scala di valori comunicativi il film, a determinarne con chiarezza il suo punto di arrivo e il suo scopo di documentazione e di denuncia. Una lunga sequenza  traboccante di tensione e di intensità che trasmette una palpabile sensazione di verosimiglianza, di immedesimazione negli stati d’animo.  Di un realismo che ancora una volta la ricostruzione cinematografica riesce a comunicare ben oltre l’immagine stessa, frutto riuscito di quella ibridazione  con lo stile del no fiction che dimostra  se usato con intelligenza, o con furbizia dirà qualcuno, di provocare emozioni potenti.

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