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Miss Violence

Regia di Alexandros Avranas vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Miss Violence

di spopola
8 stelle

Lo spunto iniziale è venuto da una storia vera accaduta in Germania, ma dalle ricerche che ho fatto per il film ho scoperto molte altre storie similari in tutta Europa. Nella realtà sono successe cose anche peggiori di quelle raccontate nel film, che sono un po’ la sintesi dei tanti episodi su cui mi sono documentato. (Alexandros Avranas)

 

Il cinema con la sua rappresentazione mediata delle cose, anche quando in apparenza sembra voler parlare di altro, se guidato dalla salda mano di un regista capace e intelligente, può farci comprendere meglio di un qualsiasi servizio giornalistico quale è la reale “temperatura” dell’aria che si respira nel paese che lo ha prodotto e in cui è radicata la storia che intende raccontare, poiché con la sua spesso provocatoria chiave di lettura (e senza alcun bisogno di generalizzare), riesce ugualmente a farci percepire la  proiezione indotta ma assolutamente veritiera, dell’effettivo stato riguardante la situazione sociopolitica di riferimento.

L’esempio credo che sia particolarmente calzante se osserviamo quello che ci sta arrivando dalle Grecia in questi ultimi anni (parlo ovviamente soprattutto di ciò che si è potuto vedere qui in Italia): un cinema che nel mettere in scena terribili conflitti familiari, riesce anche ad esporci in filigrana la tragedia di quella nazione, e a farci arrivare l’eco assordante della disperazione di una società nella quale l’impatto della crisi economica e la perdita di punti di riferimento politici e sociali, vengono  ad essere metaforicamente traslati in pratiche distruttive di sadomasochismo.

Ne avevamo avuto uno sconvolgente assaggio qualche anno fa con Kynodontas di Yorgos Lanthimos (indicato fra i venti cineasti più promettenti del mondo dal New York Times), e ne troviamo una nuova conferma adesso nell’altrettanto scioccante Miss Violence di Alexandros Avranas (forse il più “disturbante” dei titoli passati in concorso all’ultima rassegna veneziana insieme a La moglie del poliziotto di Philip Gröning che però non ho purtroppo ancora vedere) che al Lido quest’anno si è portato a casa ben due premi, il Leone d’argento per la regia e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione assegnata al suo protagonista (Themis Panou).

Entrambe le pellicole hanno al centro una famiglia dominata  da un patriarca (sia pure in differente modo, ma con esiti altrettanto de­leteri), che detta le regole – regole atroci, è bene precisarlo subito – con cui tiene legati a sé tutti gli altri componenti del nucleo, relegati (praticamente reclusi) dentro un universo chiuso e autoreferenziale dove valgono solo le leggi del clan. Basterebbero dunque solo questi pochi accenni a far comprendere le evidenti assonanze fra i due titoli, anche se non sono gli unici punti di contatto, poiché ad unirli ed a renderli similari persino nell’intento, c’è pure un stile astratto e crudamente minimalista, oltre a uno sguardo osservativo lucido e crudele quasi da entomologo (semplificando non di poco le cose, lo si potrebbe definire alla Haneke, tanto per intenderci, ma solo se si ha voglia di affibbiargli un’etichetta ad ogni costo).

Più semplicemente, si tratta a mio avviso della metodologia condivisa messa a punto da una nuova generazione di autori e di registi trenta-quarantenni che stanno (ri)animando queste ultime interessanti stagioni di effettiva rinascita cinematografica (e che per farlo non hanno paura di sporcarsi le mani con temi tanto forti da rasentare l’horror, soprattutto quello psicologico), che in Grecia sembrano guardare più alla lezione del cinema nordeuropeo che al loro passato. Una maniera disturbante insomma per incidere anche sulle coscienze dei propri spettatori che potrebbe diventare davvero l’innovativa cifra stilistica della recente onda ellenica in fase di rinnovamento ispirativo che prova così anche se in forma indiretta, ad alzare la voce affinché non venga definitivamente soffocata dalla recessione che affossa quel paese più di ogni altra zona dell’Europa.

Non vorrei comunque essere frainteso: questo è tutt’altro che un pamphlet politico, nel senso che di economia e disoccupazione, qui non si parla proprio. In Miss Violence infatti (come già accadeva in Kynodontas) la metaforizzazione del pesante clima di “sottomissione” della Grecia, viene semmai suggerita sottendendo indottamente che la sudditanza degli indifesi consente di produrre disuguaglianze così marcate da non essere accettabili che generano a loro volta lauti guadagni che finiscono esclusivamente nelle tasche degli oppressori, un obiettivo che a me sembra sia stato pienamente raggiunto mettendo appunto in scena una famiglia in cui lo sfruttamento e la soggiogazione sono resi possibili e “normali” dalla manipolazione costante e progressiva delle vite dei più deboli, oltre che dall’annientamento dei loro desideri. A mio avviso, è proprio questo il modo più efficace per far meglio comprendere il parallelo che esiste fra il pubblico e il privato senza correre il rischio di essere accusati di disfattismo o di un eccesso di demagogia: puntare i riflettori su un nucleo domestico che come ben sappiamo è proprio la più rappresentativa e fondamentale microcellula (oltre che il simbolo, spesso peraltro sbandierato anche a vanvera) su cui si basa l’organizzazione sociale e strutturale della società di ogni paese per farlo diventare il bersaglio ideale ed esclusivo capace però di far sottendere ben altro, come ho già provato a dire prima.

 

Qualche piccolo accenno alla storia  per cercare di rendere più chiaro il mio discorso, a questo punto credo che sia più che necessario: nel giorno del suo undicesimo compleanno l’adolescente Angeliki si suicida, gettandosi dal balcone dell’appartamento in cui vive con la sua famiglia, ed è su questo gesto atroce (e all’apparenza quasi inconcepibile) che si apre un film che nel suo percorso strutturale, diventa sempre più inquietante nel mettere in mostra le devianze che si celano dentro a quel “nido”. Dietro al gesto inconsulto della ragazza (che i parenti si ostinano a definire un incidente) si scoprirà infatti un intreccio di legami familiari improntati alla violenza, al sopruso e all’abuso, che il mondo esterno – esattamente come accade in questo piccolo nucleo privato - non sa (e non vuole) riconoscere.

Un’opera insomma in cui le vittime sono vittime (e da questo loro destino non trovano alcuna via di scampo), forse perché hanno sempre vissuto dentro questo universo immorale ripiegato su se stesso (e probabilmente non ne conoscono e nemmeno ne concepiscono uno diverso). Vittime che però diventano a loro volta (e di conseguenza) complici attivi nel praticare analoghe barbarie e perpetuarle così nel tempo come in una spirale senza fine in una gerarchia dove c’è sempre qualcuno più debole di un altro su cui infierire.

Così, per esprimere e farci percepire la morte interiore dei suoi personaggi, l’astro nascente Avranas  qui alla sua seconda e gia matura prova (ricordiamo che il suo debutto è avvenuto solo nel 2008 con Without), ha operato spesso in sottrazione, adottando appropriate scelte stilistiche molto coerenti e interessanti improntate a mettere in evidenza soprattutto il vuoto quasi desertico delle emozioni: il silenzio mi sembrava il modo migliore per esprimere questo dramma, ha dichiarato il regista, e sono parole che rendono chiarissimo il senso di un lavoro pieno di silenzi ed omissioni, tutto concentrato sui ritmi, sull’utilizzo claustrofobico degli spazi dentro i quali si muovono le sue figure, sull’uso magistrale della fotografia, oltre a quello ancor più straordinario che è riuscito a portare a compimento operando con e sugli attori (non solo gli adulti), tutti coinvolti anche emotivamente indipendentemente dalla loro età (ai bambini – ed è ancora Avranas che parla - non ho nascosto niente. Hanno letto tutta la sceneggiatura, ne abbiamo parlato insieme e i loro genitori sono stati un supporto importante durante tutta la lavorazione).

 

Più che restare ancorata al semplice racconto di una violenza familiare (la violenza nel film a ben guardare, resta comunque fuori scena, come sempre avviene nella tragedia greca: il regista ce la descrive – o meglio ancora, la rappresenta - per ellissi anche narrative che accentuano l’assenza fisica del “sopruso visibile” che ha solo un’eccezione, che la sua drammaticità contribuisce a rendere ancora più scioccante e sconvolgente grazie proprio alla sua inaspettata unicità) la pellicola assume allora il senso di una riflessione (universalizzata e universalizzante) sulle perverse dinamiche (tutt’altro che minoritarie) di una dimensione fortemente autoritaria, per altro profondamente radicata proprio nella storia passata della Grecia, ma perpetuata anche nel presente prima dal feroce regime dei colonnelli, e adesso dalla dominazione inconsulta di un capitalismo altrettanto disumano e gretto, che proprio quella Nazione sta sperimentando a sue spese e sulla propria pelle, più di ogni altro paese di un’Europa dominata a sua volta (quasi ossessionata) dal dio denaro e dai conti in pari.

L’unica eccezione a questo interessante e coraggioso rigore narrativo che si mantiene inalterato pur tutta la restante durata del racconto (che suggerisce e non fa direttamente vedere quasi nulla), è la sequenza (quella a cui accennavo sopra) che mette in scena un vero e proprio “stupro di gruppo” e che volutamente si distacca per brutalità e insistenza anche sui particolari, dallo stile raggelato imposto dal regista a tutto il resto, ed è proprio questo stacco anche formale a farla diventare un vero e proprio atto d’accusa di insopportabile e necessaria virulenza, rivolto anche verso gli altri (compresi quelli che da fuori, approfittano del  loro ruolo per abusare sessualmente dei minori, tanto per fare uno dei tanti esempi possibili).

Non è comunque una conclusione (per quanto cruenta e discutibile, ma che qualcuno potrebbe leggere persino in positiva) che può riuscire a scardinare le serrature e contribuire così ad aprire un piccolo spiraglio per lo meno a qualche labile barlume di speranza, e questo lo mette ancora in giusta evidenza proprio Avranas quando dichiara che nemmeno la svolta finale rappresenta una vera e proprio liberazione: il film  finisce infatti nuovamente con una porta chiusa che non lascia alcuna via d’uscita poiché queste persone sono talmente abituate ad essere delle vittime sacrificali, hanno così profondamente metabolizzato il loro essere passive, a vivere nella violenza e nell’omertà, che non saranno mai in grado di recuperare una via di fuga, qualunque cosa accada. Probabilmente – ed è solo questione di tempo – si ricreerà poi una gerarchia, con un altro capo Ed altrettante vittime e tutto resterà immutato come già lo era prima.

Avranas aggiunge ancora: Tutto quello che ho narrato può succedere nell’appartamento vicino al nostro e noi non ce ne accorgiamo, e sembra quasi (se si legge con la mia ottica il suo film) che voglia così rivolgere un monito più che all’Europa (madre-matrigna nel reale) proprio agli europei, che assume il senso (e il peso) di una fosca premonizione fatta da un cineasta che dal suo privilegiato punto di osservazione che  prova  a mandare dei segnali certi sulla pericolosità di questo smarrimento di valori etici e sociali sempre più accentuato che ci riguarda davvero tutti  poiché supera ampiamente i confini geografici delle singole nazioni e delle classi sociali. Ci mette insomma sull’avviso che quanto sta accadendo nel “laboratorio” greco, può espandersi a macchia d’olio progressiva a tutti gli altri stati dell’Europa senza risparmiare nessuno se non si  riesce a cambiare il passo delle priorità e delle coordinate strategiche orientate al momento in una sola direzione.

 

Stratosferica la prova  del giustamente premiato (vedi sopra) Themis Panou a cui il regista ha chiesto di essere mutevolmente ambivalente, e che si è dimostrato pienamente all’altezza della situazione, poiché qui riesce davvero a risultare al tempo stesso seduttivo e crudele, stupratore e padre affettuoso: una strepitosa prova attoriale di raggelante perfezione resa magnifica da un Panou particolarmente duttile e introspettivo che nelle interviste rilasciate a Venezia non ha comunque mancato di confessare il suo disagio (e anche la difficoltà) che è stato costretto ad affrontare proprio con se stesso, nel dover più che interpretare, calarsi negli abiti di quest’orco così banale, come spesso sono le persone che compiono tali infamie, che risultano in superficie talmente “rispettabili” da contraddire clamorosamente - se ancora se ne sentisse il bisogno - le delirante definizioni lombrosiane. La sua aderenza fisica e comportamentale è davvero da manuale, sia nella meticolosa esposizione delle modalità con cui esercita il controllo, che nella ripetitività quasi maniacale dei gesti quotidiani fatti ed imposti (la pulizia della casa, i cornflakes pesati ogni mattina  per evitare che qualcun altro li mangi, e così via discorrendo) che ne fanno un tragico ed orribile mostro nascosto dietro accattivanti fattezze umane.

Belle anche le scelte cromatiche della fotografia di Olympia Mytilanaiou  particolarmente appropriate  per rappresentare – visivamente parlando - questo microcosmo immorale, e veicolare il segnale del malessere (e del disagio) che nonostante tutto serpeggia dentro le sue vittime, così simile a quello degli abitanti di un paese devastato come la Grecia a cui troppo pochi prestano attenzione e ancora meno finiscono per percepire la portata reale della sua drammaticità.

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