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Il ricatto

Regia di Eugenio Mira vedi scheda film

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La recensione su Il ricatto

di spopola
6 stelle

Dopo essere passato dall’ultimo TFF nella sezione “Festa Mobile” (opera di chiusura), Grand Piano del regista spagnolo Eugenio Mira è approdato in distribuzione anche sui nostri schermi rititolato per il mercato interno (come al solito con molta più ovvietà) “Il ricatto.

Indiscutibilmente hitchcockiano sia nel plot narrativo che nella singolare e claustrofobica   riproposizione in immagini finalizzata a creare un’angosciante clima di “suspense” (con qualche interessante incursione nel grottesco per alleggerire un poco la tensione), è indubbiamente una pellicola con molte carte in regola per mandare in visibilio non solo gli amanti del thriller adrenalinico, ma anche i cinefili più incalliti che potrebbero persino trovare divertente questo doversi impegnare (una specie di caccia al tesoro) a tentare di identificare i rimandi e le attinenze (che sono davvero tante) per risalire poi ai nomi dei registi dai quali Mira ha attinto a piene mani lasciando tracce a volte molto evidenti, altre leggibili invece con più difficoltà, ma sempre godibilmente esposte.

Un vero e proprio “gioco degli specchi” insomma che denota indubbia conoscenza dei topos del genere (qui utilizzati con molta perspicacia) e delle opere che ha preso a riferimento, ma che personalmente non mi ha soddisfatto fino in fondo, purtroppo, forse perché durante la progressione della storia (probabilmente a causa delle sue forti connotazioni citazionistiche) non sono mai riuscito a nutrire qualche serio dubbio non solo sugli sviluppi possibili, ma anche sul come (e perché) sarebbe poi andata concludersi la vicenda (che ovviamente mi guarderò bene dal rivelare), il che ha notevolmente affievolito la mia partecipazione emotiva all’azione.

Non vorrei essere frainteso però, perché anche se devo necessariamente esprimere le mie riserve che sono quasi tutte concentrate sull’eccesso di déjà vu che mi ha tolto gran parte del “divertimento”, altre grosse falle nel racconto e nella sua rappresentazione filmica, non ne ho trovate (se si accettano ovviamente le regole e anche i “paradossi” di un andamento che punta ad ogni costo a rendere crescente l’ansiogenicità dello spettatore nel tentativo – credo riuscito – di tenerlo abbarbicato alla poltrona per tutta la durata della pellicola costi quel che costi anche sul versante della credibilità). Mi sembra infatti che quest’obiettivo sia stato ampiamente centrato con la maggior parte dei presenti in sala (non molto numerosi comunque), almeno a giudicare dalle loro sussultanti reazioni che lasciavano trasparire il coinvolgimento attivo di chi non può fare a meno di trattenere il fiato in gola.

L’opera è insomma nel suo insieme, intrigante e ben articolata (tutt’altro che raffazzonata, direi): indubbiamente uno di quei gialli un po’ anomali da consigliare a chi – senza porsi troppe domande - ha voglia di passare una serata abbastanza “rilassante” (si fa per dire) appagante e priva di eccessive implicazioni intellettualoidi che mischia a un plot abbastanza terrorizzante (di quelli appunto che fanno fare frequenti sobbalzi sulla poltrona) anche piccole pause di sottile ironia.

Mi sembra insomma un tantino ingiusto – e soprattutto eccessivo - il commento tutto in negativo di Alessandro Uccelli che su Cineforum l’ha bollata impietosamente “come un plagio fin troppo insulso del De Palma più hitchcockiano o di Hitchcock  stesso”, anche se indubbiamente non posso disconoscere che ci sono delle verità evidenti in ciò che scrive, perché di entrambi i registi, si trovano davvero molte cose (non solo di loro però, perché come ho già accennato prima, ci si leggono dentro altrettanti riferimenti sicuramente più velati, che a mio avviso rimandano (in)direttamente anche al modo di fare cinema di Spielberg: ai miei occhi molto di più di una semplice ed epidermica “suggestione”), il che mi porterebbe a pensare che ci si trovi di fronte a una specie di (ir)riverente omaggio a tre nomi eccellenti che – si avverte molto bene – hanno un posto privilegiato nel cuore e nella formazioni di Mira.

Quindi niente malafede, questo è certo (per me semmai un “eccesso di zelo”) ma un forsennata voglia di dimostrare che lui quella “lezione” l’ha imparata davvero quasi alla perfezione e che ha altrettanto ben masticato e metabolizzato la parte preponderante del cinema di genere del passato a partire dai grandi classici che ne hanno fatto la storia.

Di questa sua “passione” cinefila, ce ne accorgiamo infatti quasi subito (suona una sola nota sbagliata e morirai) e Mira non ne fa mistero: basta guardare come viene da lui costruito l’andamento del racconto, e come nella prima parte venga privilegiata rispetto all’azione vera e propria, un’indagine più psicologia e mediata (“preparatoria”) che si concentra soprattutto sul volto di Elijah Wood (e sull’impaurita, sconcertata  inquietudine dei sui grandi occhioni azzurri) oltre che sui suoi vari tentativi (spesso maldestri)  che fa per trovare un modo, inventarsi un’idea, che lo aiuti a sfuggire alla trappola che lo sta imprigionando e che sembra essere davvero senza scampo Una modalità che nella sezione conclusiva diventa – giustamente - molto più “fisico” e quasi da cardiopalma, con ritmi narrativi che si avvicinano appunto al parossismo.

Indubbiamente  Mira è uno che ama le “sfide” (anche con se stesso) e sceglie per questo ardui banchi di prova che sviluppano percorsi complessi pieni di micidiali invenzioni ai limiti del possibile (come per altro era già  accaduto in precedenza con Agnosia) dentro un ingranaggio narrativo  angosciosamente disturbante, articolato come un rompicapo e soprattutto imprevedibilmente insolito, possibilmente da tenere circoscritto dentro a uno spazio ristretto che ne amplifichi la portata claustrofobica (nel caso specifico, i pochi metri quadrati di un palcoscenico, o se vogliamo, la tastiera e la cassa armonica di risonanza di un pianoforte).

A me per definirlo, sembra che calzino a pennello le parole del suo autore: un meta-thriller sulla “stage fright” (la paura del palcoscenico) che non a caso era anche il titolo di un’altra importante opera – non fra le sue migliori comunque – del celebre “maestro del brivido” di riferimento prioritario, che nella versione italiana, giocando sugli articoli e le preposizioni, come spesso accade impropriamente dalle nostre parti, diventava “paura in palcoscenico” anche se l’accostamento più “certo” che si può fare, è da una parte con L’uomo che sapeva troppo(con particolare riferimento alla lunga scena in teatro con Doris Day paralizzata dal terrore che osserva angosciata il killer che fissa a sua volta l’orchestra in attesa di sparare al momento giusto all’ambasciatore), e dall’altra con In linea con l’assassinodel più corrivo Joel Schumacher, poiché anche qui per due terzi del film non vediamo la faccia del “giustuzuere” del quale sentiamo solo la voce che impartisce ordini attraverso un auricolare.

Per l’unità di tempo e di spazio che li accomuna, c’è però anche qualcosa di Nodo alla gola come ha avuto per altro modo di dichiarare lo stesso regista nel corso di un’intervista: “credo che Nodo alla gola sia stato il primo film di Hitchcock che ha attirato la mia attenzione quando ero un ragazzino e non posso non averne tenuto in qualche modo conto. Ho notato subito le lunghe sequenze di ripresa, che non erano un mero esercizio di stile, ma che convogliavano al loro interno tutta una lunga serie di eventi coagulati insieme dentro a una singola unità. Ma il più grosso riferimento per me è stato L’uomo che sapeva troppo, soprattutto per la scena dell’omicidio. Ci sono però anche altre pressanti ispirazioni, visto che fra le altre cose, qui ho temerariamente provato ad omaggiare persino l’omicidio de Il Padrino parte III,  interamente costruito da Coppola nei palchi e fra le quinte del teatro, durante l’esecuzione di Cavalleria rusticana di Mascagni”.

 

Nel nostro caso comunque, la figura che viene porta in primo piano (che è anche l’obiettivo della macchinazione), è quella di Tom Selznick (Elijah Wood appunto) un ex enfant prodige della tastiera che dopo un catastrofico concerto, un fiasco talmente clamoroso dovuto a un madornale errore esecutivo da essere ancora ricordato nell’ambiente come una vera e propria tragedia  che a lui fa venire ancora  i sudori freddi al solo pensarci, lo portò prima ad interrompere la sua performance musicale sul palcoscenico, e poi a ritirarsi definitivamente dalle scene.

E’ sposato con Emma (a sua volta una star hollywoodiana in ascesa), e sarà proprio lei che lo convince ad accettare una “sofferta” (già come pensiero di partenza) rentrée che dovrebbe essere non un “semplice” concerto per pianoforte e orchestra, ma qualcosa di assolutamente clamoroso finalizzato a riportarlo al centro dell’attenzione generale, e sul quale si sta facendo già un grosso battage pubblicitario che lo fa apparire come l’avvenimento del secolo.

Tom dovrà infatti di nuovo cimentarsi nell’esecuzione di quel brano su cui era caduto malamente, utilizzando il preziosissimo pianoforte appartenuto a quel facoltoso musicista svizzero ormai deceduto e di cui lui è considerato una specie di erede spirituale, che per inciso era stato l’unico pianista al mondo capace di suonare senza nemmeno una sbavatura, quel pezzo di temibile destrezza  ormai diventato un minaccioso banco di prova (la leggendaria Cinquette, considerata il brano più difficile del mondo)impresa quasi impossibile, visto che salvo l’eccezione del suo maestro, nessun altro virtuosista della tastiera - anche il più preparato e prestigioso – ce l’aveva fatta ad uscire indenne dall’impresa, se non attraverso qualche piccola concessione “aggiustatrice” e di comodo (non sempre avvertibile dal comune ascoltatore, ma evitando di fatto di rispettare integralmente lo spartito) atta a dribblare in corner l’insormontabile ostacolo di quella manciata di difficilissime battute da essere considerate quasi “maledette”.

Da qualche parte però, nella sontuosa  cornice del teatro scelto per la performance (la sala della Filarmonica di Chicago gremita di spettatori) c’è un cecchino appostato con un fucile di precisione puntato su di lui, che tramite l’auricolare lo avverte che se sbaglierà anche una sola nota (come era accaduto l’altra volta) quel fucile sparerà  un colpo mortale (e lui quella musica la conosce molto bene e non può essere aggirato con l’inganno) che centrerà sulla fronte o lui o la sua ignara consorte che assiste al concerto tranquillamente “accomodata” sulla poltrona di un palco di platea.

Nel caso di Selznick comunque oltre all’evidente problema dovuto all’ansia della prestazione (quella paura sottile che diventa a volte paralizzante panico), c’è poi l’aggravante ulteriormente deconcentrante, di essere costretto ad eseguire il brano dovendo in contemporanea seguire e attenersi alle istruzioni che gli arrivano in diretta dal killer, e di tentare di trovare per lo meno il modo senza farsene accorgere, per avvertire la moglie del pericolo incombente e salvarle così la vita prima che sia troppo tardi. Altrimenti, non gli resta che il miracolo di riuscire davvero a fare un’esecuzione perfetta  del pezzo musicale (cosa ovviamente tutt’altro che scontata).

 

Il virtuosismo registico è indiscusso e viene reso palese soprattutto dalla maniera in cui riesce a gestire tutto l’andamento sincopato della seconda parte, sincronizzando con precisione millimetrica la rapida scansione degli eventi mostrata dalle immagini con l’azzeccato ritmo in crescendo dell’intrigante spartito musicale (fondamentale in un’opera come questa) magistralmente composto da Victor Reyes che a mio avviso è il vero punto di forza della pellicola.

Protagonista assoluto è  - come si è visto – un Elijah Wood davvero in grande spolvero, aiutato per altro dal fatto che sa suonare davvero il pianoforte (la musica è la sua seconda passione dopo il cinema), e che è bravissimo, al di là dei nervosismi estremi del corpo, delle mani, della mimica facciale, del suo sguardo inquieto e attonito allo stesso tempo che già da soli dicono molto, a farci percepire proprio grazie alla sciolta – realistica - dimestichezza che ha nel far scorrete le dita sulla tastiera per eseguire davvero tutte le note scritte sullo spartito, quel senso di “profonda verità” che amplifica notevolmente e per davvero la portata della tensione creata appunto dalla musica (Chiara  Bruno la definisce “un grumo di note , congestionate dalla tensione, mescolate dal panico e infine sciolte dal sollievo della realtà” e si riferisce non solo al suono, ma anche al volto dell’attore).

Attorno a lui, si muovono stando più che degnamente al gioco, un torvo  (e un po’ sacrificato) John Cusack, Allen Leach, Kerry Bishé, Tamsin Egerton.

Intensamente appropriati anche l’inappuntabile fotografia di Unax Mendia e l’adrenalinico  montaggio di José Luis Romeu.

Come ha già scritto qualcuno prima di me, Il ricatto” (o per meglio dire Grand piano) è un thriller esistenziale, in cui un individuo è solo contro il proprio incubo, mentre gli altri, ignari, fanno festa intorno a lui, ma al quale io non riesco a dare – proprio per la ragione sopra esposta – un voto superiore a quello della sufficienza.

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