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Vizio di forma

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Vizio di forma

di Storiedicinema
7 stelle

Vizio più di sostanza che di forma
Paul Thomas Anderson è una mente precoce che ha plasmato il suo carattere di regista guardandosi bene dalle cose semplici. E lo ha fatto perlopiù affrontando con occhio clinico la profondità umana di personaggi complessi e gli intrecci, rocamboleschi e fatali, degli stessi. Boogie night, Magnolia e il Petroliere - il suo capolavoro - sono titoli importanti che hanno lasciato un segno nel cinema di almeno un decennio. Ed proprio sulla scia di questo corposo bagaglio che il regista americano ha intrapreso la via del noir, portando al cinema col medesimo titolo il romanzo di Thomas Pynchon Vizio di forma – titolo originale Inherent vice. Ecco quindi un eccentrico investigatore privato hippie (Joaquin Phoenix) alle prese con loschi affari e intrecci riguardanti sette ariane, un poliziotto ossessivo che lo perseguita, amanti, rapimenti, ricchi immobiliaristi, una famiglia di tossici, l'ex fidanzata, traffici di droga, federali e via dicendo. È senz’altro un noir atipico, ibrido, che, tuttavia, raccoglie molti caratteri del genere e che Anderson, da ottimo compositore, ha saputo magistralmente assemblare rendendolo accattivante nel suo insieme e superbo nelle atmosfere. Vizio di forma ha la stoffa giusta per suscitare reminiscenze e fascinazioni importanti, tipiche di quel manierismo cinematografico che spesso ci ha regalato belle opere ripercorrendo e rivisitando le gloriose vicende di certi filoni intramontabili del cinema. La Los Angeles calda e ambigua di Chinatown, personaggi degni del miglior grottesco targato Coen, qualche affinità con la perfezione de Il grande sonno – anche se un complesso filmico che parte da Chandler, scritto da Faulkner, girato da Hawks e interpretato da Bogart mette una certa soggezione solo a nominarlo – e le suggestioni de Il lungo addio. Esplicitamente altmaniana è anche la regia, fatta di lunghe sequenze, fitti dialoghi e una cinepresa che senza stacchi si avvicina lentamente ai protagonisti quasi volesse soffocarli nello specchio del suo campo. Ma all'interno di questa virtuosa cornice d'autore si racchiude un qualcosa di magmatico, di confuso, a tratti insensato. Una specie di carattere fugace, ingordo di situazioni, cose, persone, in grado di toccare numerosi punti tematici senza assorbirne l'essenza, spinto da quel formalismo invadente capace di prendere il sopravvento sulla scrittura e sulla effettiva forza trascinatrice della storia. Siamo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quindi i movimenti hippie, Nixon, Charles Manson, la libertà sessuale, l'umorismo grossolano e l'abuso di droghe rappresentano chiari elementi generazionali di elevato potere simbolico che Anderson, proprio nel momento in cui la relazione tra persone ed eventi richiederebbe un filo conduttore quantomeno deducibile, disperde con eccesso di fretta tra le pretese fin troppo compiaciute della sua inebriante arte di cineasta. Il risultato è una trama complicatissima che, dopo un eccellente inizio, non tarda a rivelare una scorrimento faticoso, labirintico, che per oltre due ore continua ad accumulare situazioni appesantendo oltremodo la parte narrativa principale. Ne fanno le spese sia l'aspetto meramente espositivo legato agli eventi, sia quel parlare oltre il film che vorrebbe raccontarci il crepuscolo di un’epoca incerta, paranoica e allucinata. Lascia più di un dubbio Vizio di forma. Anderson ha fatto un grande lavoro dietro la macchina da presa; i suoi personaggi sono belli, si muovono bene, dialogano magnificamente sotto il riflesso accecante del sole californiano o sotto la vivida luce blu di qualche neon. Ma spingersi oltre la meraviglia delle singole parti risulta un’operazione ardua e, al netto di una volontà forse incompresa, abbastanza inutile. Se con Vizio di forma Paul Thomas Anderson voleva dimostrare di saper costruire in grande stile un noir moderno, si può tranquillamente accreditargli tutto il merito di questo buon risultato. Ma se nel suo intento c’e stata la volontà di reinventare le basi e il concetto di un genere alla maniera di Roman Polanski – obiettivo tutt'altro che sproporzionato per un talento come quello di Anderson -, beh, allora i conti non tornano fino in fondo.

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