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Due giorni, una notte

Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film

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La recensione su Due giorni, una notte

di Lehava
5 stelle

Il mondo è cambiato, dopo il 2008. Anche la disperazione, il disagio, la marginalità hanno preso vie inattese passanti per un disinteresse (piuttosto che un accanimento consapevole) delle autorità, una solitudine fragorosa nella globalità, un appiattimento verso il basso delle aspettative. I fratelli Dardenne, testimoni sensibili di una emarginazione di fine millennio, ci hanno messo un po' per capirlo. Vent'anni dopo i primi successi di critica ritornano convintamente alla ribalta con "Due giorni, una notte". Non afferrano però che anche il cinema, nel frattempo, è cambiato. O forse, un certo cinema, per essere ancora fatto, non può cambiare. Il risultato è un'opera contraddittoria e discontinua: non tanto nei ritmi quanto nelle scelte consapevoli operate. Nulla aggiunge al percorso dei due registi belgi: anzi, probabilmente toglie. Laddove si debba ricorrere ad una "diva" per far parlare di sé, e ci si perda in un eccesso di mezzi economici mal disposti e mal utilizzati.

La trama è semplice quanto intrigante: una giovane donna rimasta a casa per curarsi la depressione vuole rientrare al lavoro. Ma i sedici colleghi, con qualche ora di straordinario a testa, sono riusciti a coprire le sue mansioni con successo. Il datore di lavoro indice pertanto una votazione interna: riprendere Sandra, oppure avere assegnato un bonus per il buon lavoro svolto in sua assenza? Il piccolo referendum condanna la ragazza ma una amica collega insiste affinché venga ripetuto, adducendo generiche pressioni da parte del caporeparto volte al licenziamento. Otterrà questa chance: Sandra avrà pertanto davanti due giorni ed una notte per comprendere le posizioni dei compagni e convincerli che la sua ri-ammissione al lavoro sia la scelta giusta per tutti.

 

Sin dalla prima scena è chiaro che la sceneggiatura sia costruita tutta attorno alla protagonista femminile e lo stile registico dei Dardenne resti immutato negli anni: lo stare addosso alla donna, il volerne scavare l'anima in pochi istanti, la centralità di lei nel tutto, il buttare lo spettatore dentro la storia senza salvagente in un paio di minuti, a me hanno ricordato l'incipit altrettanto folgorante di "Rosetta". Qui però è diverso: nella sostanza, innanzi tutto. Il dato forse più interessante: non più la miseria totale, la mera e tremenda lotta per la sopravvivenza quotidiana, una sorta di pessimismo cosmico, quando piuttosto una disperazione intima fatta di depressione e di inadeguatezza borghese. Una casa graziosa in un quartiere tranquillo, una macchina nuova, un marito giovane e comprensivo, due belle bambine con il computer e la stanzetta colorata ed il terrore soffocante di perdere ogni piccolo privilegio duramente conquistato. Un quadro più rassicurante? Direi proprio di no perchè dietro a pareti ben dipinte e crostate di frutta ci sta la crudeltà della solitudine: tutti sono solo soli, solo soli in mezzo alla folla, solo soli in mezzo ad un universo che macina competizione: la piccola azienda che deve stare al passo con i concorrenti cinesi (affogata in un mercato selvaggio), i compagni di lavoro che quasi non si conoscono ed ognuno pensa per sé, la coltivazione e la protezione di un orticello minuscolo fatto di figli all'università, bollette da pagare, campi di periferia. Sandra non sta' al passo: crolla in camera da letto, era crollata prima nella depressione, ora non crolla solo grazie allo Xanax. Manca di fiducia in sé e di convinzione: lei per prima non crede alla solidarietà, come può chiederla agli altri? Il film si dipana in una narrazione simmetrica e precisa: la protagonista fa una lista e si reca vuoi da questo, vuoi da quel collega, chiedendo di votare per la sua riammissione: ognuno di loro rappresenta (dovrebbe rappresentare) le sfaccettature di una stessa medaglia. Quella della necessità e dello sfaldamento di ogni credo ed ogni schieramento (politico, sociale, religioso). Una sceneggiatura pulita, puntuale, ordinata, dal ritmo costante. Ma, mancante di qualcosa: come se, da un lato, non si riesca a cogliere appieno la ripetitività di una vita senza guizzi ed aspirazioni (se non la contingenza) ma dall'altro non si approfondiscano le diversità emblematiche. I comprimari sono senza spessore, diretti genericamente male, anonimi nei volti e nelle movenze eppure scelti tenendo conto di un politically correct a tavolino irritante (basti guardare le etnie e i sessi negli 8 che voteranno a favore). Bene Manu, il marito: ma anche qui, nessuna introspezione psicologica né indagine relazionale. Questo matrimonio che ha resistito alla dipartita mentale di una donna, che si regge su una convinzione ed una solidarietà (qui sì!) straordinarie, viene liquidato in una inutile scena ai giardinetti con un gelato in mano, annullato in due bambine superflue, per poi ritrovarsi (ma come?) in un bacio di speranza all'ospedale. La contrapposizione fra i coniugi, il loro evidente mancato dialogo, la visione diversa di sé (per il marito Sandra è guarita, è in grado di lavorare e di lottare, deve portare a casa la quota per il mutuo. Lei persiste ad imbottirsi di pastiglie, non reclama ma neppure crolla, ubbidisce ma non si comprende bene come e secondo quali modalità). Incomprensibile. Il finale, non scontato, chiude con eleganza e, stranamente per i Dardenne, con una speranza convinta.

 

"Due giorni, una notte" non è affatto un brutto film. Esso ripropone l'urgenza di impegno sociale tipica dei Dardenne, esplicata attraverso una supposta coesione fra forma e contenuto. Dove, negli intenti (che in passato avvicinarono i due belgi al grande maestro francese R. Bresson), la forma si fa contenuto. Ma è proprio questo assunto fondante che qui si perde. Lasciando lo spettatore più attento ed affezionato, smarrito e confuso. Con la sensazione che si volesse fare "qualcosa di nuovo e diverso" ma che nel contempo non si abbia avuto il coraggio di abbandonare propri stilemi consolidati (anzi, volendo più che mai ridabirli, anche tecnicamente, telecamera in spalla, montaggio il più invisibile che ci sia eppure con tagli asciutti e netti etc...). E' evidente che il percorso alternativo passasse per una sconosciuta disponibilità di mezzi: il film è "ricco". O almeno, assai più ricco di quello a cui i Dardenne erano stati abituati: un'attrice professionista pesante, vari giorni di lavorazione (e anche una certa molteplicità di locations) un sonoro raffinato fatto di suoni ambientali, la fotografia. La domanda è: si può fare un certo genere di opere con vasti mezzi, evidentissimi? Scardinando la forma-contenuto di cui sopra? A mio avviso: no. Il peccato mortale di "Due giorni, una notte" è questo: il "falso povero" mina alla base la credibilità: la luce è perennemente sbagliata. Non si capisce quando sia giorno e quando sia sera. La fotografia non aiuta: si insiste con tonalità patinate glamour, non si ombreggia. Vedendo andare la protagonista a letto alle 19:00 con raggi chiarissimi che entrano dalla finestra, lo spettatore si convince sia piena estate. Tra l'altro, non ci sono coperte sul letto matrimoniale: solo un lenzuolino. Ma dove è il sudore, quindi? Camminare sul cemento della periferia vestita di un paio di jeans, carica di antidepressivi, ed essere perennemente asciutta? Sandra che rifà i letti dei bimbi e sistema le trapunte? Ma non era estate? Alcuni comprimari hanno abiti più pesanti, altri no. Si resta disorientati. La fabbrica è perfetta: armadietti ordinati e lindi. Lo stesso per gli operai: camici quasi sterili, mano mai inquadrate. Potremmo pensare: operai specializzati in una azienda con alta tecnologia. Ma allora, viene meno la disperazione basilare (un operaio giovane e specializzato in un distretto ricco ed industriale probabilmente è competitivo sul mercato e porta su di sè competenze facilmente spendibili). Dove lo sporco, l'unto dei macchinari, il caldo, la polvere, la stanchezza? La nota dolente centrale è però, indiscutibilmente, Marion Cotillard. Chiariamo subito: bravissima. Fin troppo, rispetto a tutti gli altri. Correttamente ossuta e insistentemente sgraziata e con una impostazione dimessa (porta le spalle avanti: è il modo più facile per mettere distanza fra sé-il proprio petto, il cuore-con il mondo). Si vede che lei ci ha lavorato tanto sul personaggio e che sappia recitare è una realtà di fatto. Ci sono dei primi piani in macchina commuoventi per la gamma di sentimenti che riesce ad esprimere con i soli occhi. Ma per quanto creda, evidentemente, nel progetto, lei è Marion Cotillard: alta slanciata occhi verdi. In più: premio oscar, donna molto glamour, testimonial Dior (una "diva" diciamolo pure!) e quasi sempre impiegata in produzione multimilionarie. Non la si può usare così: non è cheap, non è una su mille, si ha difficoltà di immedesimazione (per tutta la durata del film non sono riuscita a scacciare il pensiero che, perso un lavoro, la mattina dopo ne avrebbe trovato un altro come commessa o barista: giovane e "bella presenza" quante volte abbiamo letto questo sugli annunci?). Il pubblico lo percepisce. Sulle prime qualcuno potrebbe obiettare magari ricordando l'unico altro premio della Academy ad una interprete femminile non americana: Sofia Loren alias La Ciociara: con le calze rotte, l'abito strappato, inbruttita dalla guerra e dalla fame. Ma lì, era tutt'altro cinema, appunto: spettacolare, empatico, roboante e comunque la problematicità dell'aspetto fisico (evidente a tutti) risolto con una modifica in sceneggiatura (Cesira presentata come una donna romana piccolo borghese proprietaria di un negozio, che cerca rifugio da bombardamenti cittadini. Non una contadina, come nel libro), sceneggiatura sorretta, tra l'altro, dalla certezza che in condizioni estreme come quelle di un conflitto armato, tutto possa essere spazzato via: rettitudine, onore, bellezza, . Insomma, non vorrei dilungarmi oltre. Ma l'impatto di Marion Cotillard sulla macchina da presa è deflagrante: sia tecnicamente che esteticamente. La poetica dei fratelli Dardenne ne esce malconcia.

Dare una insufficienza, per concludere, quasi impossibile: ma con tutta la buona volonta, uno striminzito sei è il massimo si possa concedere.

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