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La sociedad del semáforo

Regia di Rubén Mendoza vedi scheda film

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La recensione su La sociedad del semáforo

di OGM
7 stelle

C’è un popolo che aspetta che la luce cambi colore. Che da verde divenga prima gialla, e infine rossa. La sua speranza si compie fintanto che quel fuoco è acceso, là in alto, sopra la fila delle auto ferme. Ognuno, durante quei minuti, cerca di dare il meglio di sé. Ed è sempre molto poco, visto che, per i mendicanti, i poeti, i venditori e gli artisti di strada, la vita è appesa ad un singolo bene, un minuscolo scampolo di fantasia strappato alla sfortuna: una ballerina di pezza, un mazzo di rose dipinte, una fiamma che esce dalla bocca, un sorso di caffè sgorgato da un thermos. Rubén Mendoza esplora un lato ombroso eppure agguerrito della sua Colombia: l’universo della povertà che non si arrende, che non si rassegna alla perdita della dignità, né cede alle lusinghe del crimine. Quella gente, privata ormai di tutto, riesce a nutrirsi dei propri sogni, di cui offre una piccola parte in cambio di qualche moneta. Raúl è uno di questi: giovane, ma nero, padre di un bambino, ma senza lavoro e lontano da casa. È un elettricista, uno che ci sa fare, e che, come i suoi tanti compagni di sventura, ha una grande immaginazione. La sua baracca è piena di oggetti raccolti tra i rifiuti, che riescono, in mezzo alle mura di lamiera e cartone, a creare una calda magia che sa di pace e intimità. Lì dentro Raúl mette insieme i pezzi di un mondo diverso: inventa una città nella quale i semafori non scattano mai, concedendo ai suoi amici un tempo infinito per esibirsi e guadagnare soldi a palate. Quello sarebbe davvero un miracolo, che però, forse, si può davvero realizzare, con un po’ di pazienza e di astuzia. Intanto l’esistenza va avanti come può, inventandosi istante per istante qualcosa di cui parlare e su cui magari scherzare, e trovando ogni notte un posto nuovo per dormire. In questo film il vagabondaggio è un delirio volgare che, di tanto in tanto, riesce a mettere le ali, confondendosi con la spensieratezza, camuffandosi da romanticismo. Il balbettio che risuona di ubriacatura si trasforma nel metro di una lirica, a volte allucinata, come un’immagine frammentata da un gioco di specchi, a volte limpida come una tenera invocazione alla luna. Le parole si sovrappongono umili al rumoreggiare della massa, che fa rombare i motori e urlare le sirene, e protesta non appena qualcuno bussa al suo finestrino. Si difende dietro ad una corazza di indifferenza, e non vuole vedere l’estrema disperazione di un bambino, né il coraggio di chi vive in cammino nonostante l’età, la stanchezza, la malattia.  La sociedad del semáforo  è il ritratto sommesso ed impietoso dell’altra metà del cielo: un racconto duro, ma dal tono discreto, che porge rispettosamente l’orrore come nuda espressione della sofferenza, invitandoci a non averne paura. Il racconto procede col ritmo trascinato e irregolare di una sensibilità ferita, che tuttavia non si tira indietro: e così, riesce, a tratti, persino a gioire, mentre scava in una cupa umanità che reagisce agli stenti cercando la forza nel canto, nel riso, e nel degrado vissuto come provocatoria antitesi alla normalità. 

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