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Sinyora Enrica ile Italyan Olmak

Regia di Ali Ilhan vedi scheda film

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La recensione su Sinyora Enrica ile Italyan Olmak

di OGM
8 stelle

Una splendida Claudia Cardinale è la protagonista di un film girato nel nostro Paese, ma destinato esclusivamente ad un pubblico turco. La Rimini di Fellini offre lo sfondo ad un appassionato omaggio al cinema italiano, di cui il regista Ali Ihan cerca di abbracciare la grande anima, che spazia dalle glorie del neorealismo alle commediole televisive di questi giorni. La frivolezza è calda di sentimenti, di nostalgia e buon vino, e poco importa se il prodotto è un falso, realizzato da manodopera straniera, e senza denominazione d’origine controllata. Molti personaggi italiani sono interpretati da attori turchi, che della loro terra d’origine conservano lo spiccato accento,  ma ciò non scalfisce la genuinità di uno slancio d’amore verso un particolare modo di fare spettacolo: è l’espressione del gusto popolare di intessere piccoli racconti epici intorno ai più semplici e vividi moti dell’animo, il cui ritmo va di pari passo con il timido palpitare dei sogni della gente comune e delle piccole ansie della quotidianità.  La signora Enrica, una donna di mezz’età abbandonata dal marito quando ancora era poco più che una ragazza, in tanti anni di solitudine ha imparato a vivere un’esistenza autonoma e riservata, ma non per questo meno intensa. Ad alimentarla, giorno dopo giorno, sono le fantasie e le paure derivanti dalla necessità di arrangiarsi e di proteggersi dai pericoli del mondo. Si guadagna il pane dividendosi tra vari mestieri, tra cui quelli di venditrice ambulante di affittacamere,  ma dalla sua abitazione sono rigorosamente  banditi gli uomini e i cani, come esplicitamente indicato da un cartello affisso alla recinzione del suo giardino. L’abitudine è la corazza che si è costruita intorno, dando contemporaneamente l’ostracismo a tutto quanto possa far riaffiorare ricordi troppo penosi. La polvere del tempo si lascia depositare e si conserva, ma stando bene attenti a non sollevarla dagli oggetti dimenticati. Ad agitare l’aria, portando in casa di Enrica una dolorosa ventata di novità, arriverà Ekin, un ragazzo di Istanbul affidatole per sbaglio come nuovo inquilino. In quel mulinello di vento fresco, tanto inatteso quanto travolgente, Enrica si scoprirà potenziale amante, amica, madre di uno sconosciuto, che, misteriosamente, riuscirà a rappresentare, per lei, l’insieme  di tutte le occasioni mancate e dei rimpianti mai superati. In quel giovane, palesemente immaturo e spaesato, troverà un motivo di sfida ed uno spunto per rimettere in discussione la propria pregiudiziale chiusura nei confronti degli estranei. Ekin si trasformerà ben presto nell’incarnazione di un anacronistico sogno romantico, dell’illusione di poter recuperare, almeno per qualche fugace istante, il tempo colpevolmente perduto. Un velo di rose e fiori si stenderà, per un po’, sulla sua realtà dura e ripetitiva, senza però cambiare la crudele sostanza del destino. L’incantesimo è di breve durata, e nel finale si spezza, con un colpo di coda ben assestato, riportando alla luce le ottuse contraddizioni di un’umanità che disprezza le favole, e usa la concretezza come un’arma di offesa. Rimanere ancorati al vecchiume della tradizione, dei legami del sangue, del cinismo spacciato per spregiudicatezza ha un effetto mortale su tutte le idee nascenti, su tutti i nuovi progetti di libertà. Non credere  uccide. Vedere le cose come sono, anziché come potrebbero essere, è l’errore di fondo che taglia le gambe ad ogni tentativo di crescita. Il turco vuole travestirsi da italiano, e si può far finta che davvero lo sia. È l’impegno, morale e creativo, richiesto a tutti noi osservatori del mondo. Perché solo chi inventa, cambiando le regole, esiste davvero. Il grande Federico docet.

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