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Birdman

Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film

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La recensione su Birdman

di giancarlo visitilli
10 stelle

Finzione o verità. Dentro o fuori. Palco o realtà. Obbligo o verità. L’amore come assoluto. Il capolavoro di Alejandro González Iñárritu. Difficile definirlo solo un film. Certo è che ci si emoziona non tanto per la storia, l’eccellenza degli attori e degli attrici. Ci si commuove per il cinema in sé. Pensato e vissuto come l’unica realtà capace di smuovere e sospenderci, come nella prima sequenza del film, per risollevarci dalla “mediocrità del quotidiano”. Questo riesce a trasmettere e a fare, prima e dopo la visione, che continua a girarti a lungo nella testa, Birdman.

Ci si ammala vivendo, insieme a Riggan Thompson, l’attore hollywoodiano sul viale del tramonto, celebre agli inizi degli anni Novanta per aver interpretato un supereroe in maschera stile Marvel. Perciò, all’età di sessant’anni, lui cerca di rifarsi una verginità artistica, adattando e interpretando a Broadway un noto testo narrativo di Raymond Carver. Ma Riggan non ha fatto i conti giusti, nonostante conosca il mestiere, compreso quello del vivere, e dovrà vedersela con le stranezze tipiche da attori, fra quelli che ha assoldato, e con non poche beghe familiari che acuiscono il suo tormento.

Ma detta così, può sembrare la storiella di una commedia all’italiana. Ecco, la difficoltà maggiore, rispetto a Birdman è non saper trovare le parole giuste per dire cosa, il suo autore, Alejandro González Iñárritu, ha scritto, per la prima volta senza il fido compagno di sceneggiature, Guillermo Arriaga, ma in compagnia di altri tre autori. Il film è sul cinema, ma anche sull’arte in genere, sull’esistenza, ma anche sulla sua negazione, sulla vita e sulla morte, ma anche sulla possibilità che ci sia una terza via fra queste due. Birdman è tutto.

Il regista messicano, non abbandona affatto i toni cupi che hanno caratterizzato i suoi altri meravigliosi film, da Amores perros (2000), 21 grammi (2003), Babel (2006) fino a Biutiful (2010).

In quest’ultimo, dal carattere enciclopedico, per esempio, c’è tutto quanto si deve e può sapere intorno al mestiere dell’attore, sulla sua incapacità di essere vero nella vita e non piuttosto su un palco. Durante la visione di Birdman si avverte la grande difficoltà di voler capire se quello a cui stiamo partecipando è l’eclissi della vita di un uomo reale o di un attore nella parte di chi si auto-sopprime. Roba che Iñárritu gli fa un baffo a tutto il teatro, ma anche il romanzo, di Pirandello e anche di più grandi. Pur avendo entrambi, Pirandello e Iñárritu, l’idea che ciò che è dentro, nella parte più riservata e nascosta e magari labirintica (gli interminabili piani sequenza nel retropalco) della propria vita, forse può avere a che fare con la realtà, è evidente che il mondo, quelli lì fuori, ha sempre come sfondo phantom, per ricordare che si é nella broadway, o come meglio si é imparato a identificarla, società dello spettacolo. La stessa che può permettere, in meno di un’ora, di avere “350mila visualizzazioni”. E capita, così, di diventare famosi o di possedere un ego smisurato in certe situazioni e non esser capaci di riconoscersi nelle piccole e quotidiane circostanze, quelle che passano attraverso gli affetti famigliari, capaci di far accorgere di come “la gravità è un problema che non ci riguarda”. Per tutto ciò, Riggan, man mano che il tempo lo torchia, si trasforma in un antieroe (la corsa in mutande nel pieno di Times Square), rimasto fuori, tagliato fuori, escluso dal mondo di lì dentro.

Michael Keaton si fa strumento davvero dell’intera gamma di emozioni, come tutto il cast, composto da star di primo piano, da Edward Norton nelle vesti di un istrionico e isterico attore, Naomi Watts, attrice pronta a ogni forma di umiliazione, trattandosi di Broadway, ad Emma Stone, nella credibile parte di figlia tossica di Riggan.

Birdman è anche un’opera assoluta sul cinema, compresa la sua erronea critica (“che cosa può esser successo nella vita di una persona, per aver deciso di aver fatto il critico?”), che supera il concetto stesso di metacinema, perché il realismo con cui lo stesso mezzo è raccontato è di soffocante realismo. Con i quadri che diventano i luoghi in cui, nel mentre, ci si adatta e ci si ambienta a situazioni e siti assolutamente diversissimi, rispetto a quelli inquadrati qualche frazione di secondo prima. I movimenti di macchina sembrano sprofondare e andare al di là dello spazio e del testo filmico. Perché il vero film sta nell’oltre, nello spazio abitato da chi ha la consistenza e conosce la gravità, per imbattersi e, al massimo, sorvolare la propria e l’altrui esistenza. E’ così anche che può giustificarsi una quasi assenza di montaggio nel film, o almeno la capacità del regista di renderlo come fosse, dall’inizio alla fine, un unico volo verso quel luogo dove, con le regole assegnate a questa parte di universo, chi vola, cambia le prospettive al mondo.

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