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Birdman

Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film

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La recensione su Birdman

di FilmTv Rivista
8 stelle

C’è stato un tempo, nella storia del cinema, in cui il pianosequenza era la lingua del vero. Perché, come a ricordarsi del suo significato di rivestimento, la pellicola preservava e perpetuava lo scorrere continuo del mondo, la durata effettiva del reale, anche se messo in scena. Poi ci sono stati Jancsó e Angelopoulos, De Palma e Sokurov, Haneke e Cuarón a farne strumento di critica della storia, figura della crisi dello sguardo, elogio della bugia digitale. Per Birdman la questione è esistenziale: perché nel raccontare la storia di un attore hollywoodiano in cerca di redenzione intellò sui palchi di Broadway, dell’incombere degli spettri spettacolari del proprio passato su una pièce tratta da Carver, ricorre a un unico pianosequenza che non è interessato a restituire la durata reale dei fatti. Ma quella di un reale mediato e a misura di ego, colmo d’ellissi anche se esente da stacchi, che s’allucina nella traccia psichica e s’affossa nel flusso interiore, che si perde nel coacervo di info e sbanda sull’ottovolante dell’eccesso di stimoli, che salta dal pop all’élite, dal vero al teatro, dal dramma al comico, e confonde la posa e l’autentico. Rigurgitando Keaton in Riggan, Birdman in Batman. E riversando, dunque, il privato nel pubblico, come prassi social 2.0, come fa il comparabile Afterlife di Spike Jonze (videoclip per gli Arcade Fire): un dramma privato d’amore, la fuga in un set a forma di sentimento, infine lo sfogo del tutto nel puro spettacolo, di fronte agli occhi del mondo (super realismo, si dice). Birdman è (come Maps to the Stars e L’amore bugiardo) un film, un film-nevrosi, sul controllo della propria immagine, oggi: Riggan può manipolare il suo reale/digitale, può muovere gli oggetti con il pensiero, può, ma il suo potere è limitato. Perché se Carver e i suoi personaggi vogliono «solo poter dire di essere amati, sentirsi amati sulla terra», qui quest’amore dev’esser di massa, ridotto alla fama, al consenso, sacrificato al panopticon, al “Mi piace” del pubblico («sai che Farrah Fawcett è morta lo stesso giorno di Michael Jackson»? si dice, come in Il regista di matrimoni, come Luc Moullet che in Le prestige de la mort muore lo stesso giorno di Godard). Se nei film precedenti Iñárritu cercava il mélo nella logica del mercato globale, qui dal macro passa al micro, dal mondo alla mente: ma riflette sempre su quel che lega merce e sentimento.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 5 del 2015

Autore: Giulio Sangiorgio

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