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La gabbia dorata

Regia di Diego Quemada-Diez vedi scheda film

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La recensione su La gabbia dorata

di giancarlo visitilli
8 stelle

Bastano pochissime sequenze, per accorgersi del capolavoro nel quale ci si imbatte. Qualche inquadratura, i grandi silenzi e la descrizione dei paesaggi, per comprendere che si tratta di un grande regista. Diego Quemada-Díez ha lavorato accanto a nomi come Ken Loach, Oliver Stone, Alejandro González Iñárritu e Fernando Meirelles. E li contiene tutti e nessuno. Perché la narrazione di Quemada-Díez ha una particolarità: di non assomigliare alle altre. Per questo ne vedremo di belle grazie a questo straordinario regista spagnolo, se questo è solo il suo esordio, dietro la macchina da presa.  

La storia è quella di Juan, Sara e Samuel, tre adolescenti dei quartieri poveri del Guatemala, che cercano di raggiungere gli Stati Uniti d’America, alla ricerca di una vita migliore. Lungo il loro cammino, attraverso il Messico, incontrano Chauk, un indio del Chiapas che non parla lo spagnolo e gira senza documenti. Il viaggio è lungo, a bordo dei treni merci o seguendo a piedi i binari delle ferrovie, e porterà i ragazzi verso un’imprevedibile realtà.

La strada, metafora di vita e di morte, percorsa dal sogno e dalla speranza per il futuro. Pur trattandosi dell’antico e tanto agognato sogno americano, emblema di prosperità economica e migliori possibilità di vita, in questo film, forse per la prima volta nella storia del cinema, e non solo, a guardare tale sogno, come un miraggio, non sono gli adulti, bensì gli adolescenti. E la ricerca, quindi, vive dell’ingenuità tipica dei ragazzi, inconsapevoli dei rischi, illusi che in quella parte dell’America ci sia un sogno ancora da poter raggiungere e poi realizzare. In realtà, quello che interessa al regista, è il cammino, la strada, il mentre. Perché è durante il viaggio che avviene la scoperta di se stessi e, quindi, anche della vita, che ti offre, sulla stessa strada, la possibilità di conoscere l’altro. Sulla stessa via, camminando su binari, che al contrario, non si incontrano mai, come rette parallele, c’è la possibilità dell’incontro. L’incontro che ti cambia e ti prepara alla crudeltà della vita. Quella reale, del cui realismo disarmante è intrisa ogni parte della pellicola. Per questo, i rimandi alle opere di Ken Loach e di Iñárritu, comprese quelle di Meirelles, è evidentissimo.    
Le riprese sporche, girato in Super 16, con la chiara la volontà di avvicinarsi ad una abrasione dell’immagine d’impianto documentario, gli attori senza alcuna esperienza, i luoghi che sembrano spostare, anche in sala, la polvere, i fumi, compresa la neve, ti sbattono una realtà dura da sopportare, difficile da osare, anche con lo sguardo. A volte ci sono anche le barriere (i muri) che lo impediscono. Tutto ciò, soprattutto, merito di una sceneggiatura ridotta all’essenziale, che gioca di scarto, e finalmente rimette in sesto, in modo completamente nuovo e avvincente, la stessa idea di frontiera. Intesa come limite e separazione. Si tratta di quella, per niente sottile, linea rossa da aggirare, attraverso gli anfratti dove sguazzano topi, navigando su corsi d’acqua, facendosi segnare la rotta dai binari. Tutte vie che dovrebbero condurre al progresso. Invece, il viaggio di Juan, Sara e Chauk è lo stesso di tutti i migranti, compresi quelli che dormono il sonno della pace, nel deserto, in terra e in mare. Coperti dagli elevati e consistenti muri della nostra omertà. Un film imperdibile ed essenziale. 

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