Espandi menu
cerca
Storia di una ladra di libri

Regia di Brian Percival vedi scheda film

Recensioni

L'autore

PETRAgrafico88

PETRAgrafico88

Iscritto dal 3 novembre 2015 Vai al suo profilo
  • Seguaci 10
  • Post 6
  • Recensioni 10
  • Playlist 3
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Storia di una ladra di libri

di PETRAgrafico88
10 stelle

“Storia di una ladra di libri” è un film del 2013, ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, in un paesino di provincia della Germania nazista.

Diretto dal regista britannico Brian Percival, vincitore di un Emmy per la serie televisiva inglese “Downton Abbey”, in esso compaiono attori d’eccezione come Emily Watson (“Le ceneri di Angela”) e Geoffrey Rush (“La migliore offerta”).

Su questo film si sono espressi molti pareri e, spesso, discordanti, tra l’entusiastico e il deludente, ma la mia disamina verte su un punto di vista diverso, ovvero ne cercherò le differenze sostanziali nell’omonimo libro scritto da Marcuz Zusak, appunto “Storia di una ladra di libri”, precedentemente pubblicato con il nome de “La bambina che salvava i libri”. Propongo tale tipo di analisi non solo per i cineamatori ma anche per quelli che si dilettano nel leggere di commistioni fra cinema e letteratura.

Partiamo dalla trama, comune a tutte e due le opere. Come dettato dai sottotitoli delle scene iniziali, siamo nel febbraio del 1938, e in Europa imperversa il clima tenebroso della Seconda Guerra Mondiale. Nella Germania nazista di Hitler, la protagonista del film è Liesel Meminger, una bambina di dieci anni, figlia di una sovversiva e sorella di un bambino di sei anni, che viene adottata e trasferita in un villaggio molto distante da Monaco, chiamato Molching. Del suo nuovo nucleo familiare fanno parte due genitori adottivi di personalità molto diverse: il padre è amorevole e generoso, mentre la madre si rivela subito un po’ strega, apparentemente solo brontolona ma, in fondo, capace di sentimenti filantropici.

Dopo la morte del fratello più piccolo avvenuta sul treno che doveva portarla dalla sua nuova famiglia, Liesel arriva ad abitare nella via detta Paradiso, ovvero la Himmelstrasse; incapace di leggere e scrivere ma non priva d’intelligenza, capisce che il papà adottivo, interpretato intensamente bene da Geoffey Rush, rispetto alla madre dura e austera, è la persona giusta con cui iniziare un vero rapporto di fiducia. In questo villaggio della Germania nazista i sentimenti nazionalistici non tardano ad annunciarsi e la ragazzina scopre ben presto che l’appartenenza al popolo tedesco non accetta compromessi, e tutto ciò che può aderire a sentimenti di spensieratezza deve venire soffocato.

Una sera d’inverno, le autorità vigenti il piccolo paese, in piazza, davanti alla folla trepidante, bruciano una montagna di libri ritenuti non consoni al regime. Da questo episodio in poi, la protagonista verrà circondata da una serie di avvenimenti che la porteranno a scoprire il bellissimo valore delle parole e della fantasia nascosta nei libri che la società nazista considera proibiti, e manterrà un segreto che si rivelerà vitale per la sopravvivenza di Max, un ragazzo ebreo venuto a cercare rifugio nel villaggio.

La suddetta trama indicata nel libro viene rispettata anche nell’opera filmica, nonostante poche differenze. Per cominciare, dall’inizio del lungometraggio tutta la vicenda viene narrata da una voce fuori campo che impersona il punto di vista della Morte stessa, una personificazione d’impatto che non smette, con i suoi commenti personali ed efficaci, di scandire le fasi della narrazione con un punto di vista del tutto originale e veritiero.

La prima delle differenze che si riscontrano tra il libro e la pellicola è che la narrazione che la Morte in persona fa della guerra, tema centrale nel libro, viene sovvertita nel film, trasformando la cinica e poetica visione che essa ci dà degli avvenimenti in un accompagnamento partecipativo e quasi sporadico alle circostanze; nel libro, della Morte si fa un quadro d’insieme come fosse essa stessa la protagonista: ne vengono descritti gli stati d’animo, le incertezze, i dubbi, proprio come fosse una figura tangibile, una persona in carne ed ossa. Nel lungometraggio, essa scandisce i momenti più importanti, dall’inizio fino alla fine, senza però sovrapporsi ai dialoghi o allo stesso racconto filmico. Così, la si concepisce come partecipante fuori dal coro: viene fatta intervenire in maniera essenziale nei punti salienti della trama, con poche ma potenti frasi che ne delineano la sapienza riguardo la lettura del destino e la realtà che i personaggi vivono. E’ una guida tacita, se vogliamo, una spettatrice che interviene negli istanti opportuni, conquistandosi ciò che è suo di diritto: l’ultima parola.

Altra differenza degna di nota è che Liesel, nel film, ha dei nemici, un suo coetaneo in particolare, Franz Deutscher, che la minaccia spesso, cosa che differisce dal libro per l’assoluta mancanza di veri nemici umani nella vita della bambina, poiché nell’opera letteraria gli unici nemici che scandiscono la vita della protagonista sono il Nazismo e la sua mancanza di libertà, nonché l’incubo costante della morte del fratello più piccolo e l’abbandono (che abbandono non è!) della sua vera madre, caratteristiche non del tutto rimarcate e latentemente inserite nel corso della pellicola.

Non di meno, lo scrittore dà un quadro d’insieme della guerra, sia vissuta con gli occhi della Morte sia tramite Liesel e la sua vita nel villaggio, molto chiaro, sintetico ed esplicativo di una narrazione vissuta tramite pensieri semplici, intervallati da spazi, ellissi, come fosse quasi un diario di bordo pensato e non scritto. L’opera filmica, diversamente dai tempi lunghi di un libro di circa seicento pagine, accompagna un’ esposizione narrativa ben eseguita, senza sbavature, lineare nel suo complesso e dotata di certi momenti di pathos unici che lo stesso libro descrive in corsi temporali, talvolta, troppo sospesi. Naturalmente, molta della trama non poteva essere di interesse filmico, quindi alcuni fatti meno interessanti sono stati omessi e, personalmente, nonostante il testo letterario sia considerato uno dei più grandi best-seller mondiali di recente scrittura e la sottoscritta lo consideri bello seppur scritto in maniera sintetica ma giustamente poetico e allegorico, il film merita d’essere considerato molto di più, in effetti come opera “a parte”, uno spin-off molto più convincente ed emozionante.

Solo cinematograficamente parlando, ora, il film ha dei punti di forza non indifferenti, quali una fotografia splendida: corale, pulita, giustamente ottenebrata in certi punti da un filtro digitale grigio-seppia che meglio pone l’incarnazione vera e propria dell’atmosfera fuligginosa dell’inverno tedesco, sempre alle prese con bombardamenti, distruzioni ed effettivo volare nell’aria di una polvere speciale, quella della precarietà e della sofferenza. Questi elementi rispecchiano benissimo il clima di quegli anni e trovano il loro apice nelle varie location d’epoca, alcune delle quali molto suggestive.

La sceneggiatura è molto simile al best-seller ma è molto più definita, a tutto tondo, descrive meglio le situazioni che in un lungometraggio devono per forza essere esplicate in tempi minori, e l’intento riesce bene senza dubbi, sbagli o altro che non possa donarne credibilità. L’interpretazione degli attori, quali Emily Watson, è magistrale: è bella la scelta di Percival del donare alla figura della madre adottiva di Liesel un’aura umana completa, terrena, perfettamente delineata dalla bravura dell’attrice, da cui traspare una nascosta sensibilità che nel libro arriva piuttosto tardiva, e si dimostra personaggio altro, forse con qualche debolezza in più, rispetto a quello delineato dalla penna dello scrittore. Ottima la creazione emozionale dell’amicizia fra Liesel e il suo amico Rudy, veritiera e rispettata appieno dall’opera letteraria. Essa è fulcro di una storia che, senza questo legame speciale, avrebbe poco da raccontare, così come il rapporto tra la piccola e il padre adottivo: il loro legame indissolubile, fulcro anch’esso di tutta la narrazione, è fondamentale per dare allo spettatore la visione finita del bisogno della nostra eroina di venire riconosciuta per la sua unicità.

Non va dimenticato che tale opera cinematografica non si pone sopra o vuole oltrepassare senza riserve la versione di altri film quali “Schindler List”, “L’ amico ritrovato”, “Il giardino dei Finzi Contini” e lo stesso capolavoro “La vita è bella” riguardo al dramma della Shoà, cosa che sicuramente avrà lasciato molti delusi fra gli spettatori: questo è un film differente, diversamente concepito, una visione magari, per certi versi, meno angosciante, meno crudele, ma non per questo meno adatta ad essere considerata interessante e affacciata verso una dimensione che, a mio avviso, non va sottovalutata, ossia che, in tempi di guerra, la difficoltà dei bambini di essere considerati se stessi, intellettualmente parlando, era una realtà difficile da raggiungere, realtà che i regimi hanno cercato di fare propria, capendo che, nella coscienza, i più piccoli potevano cercare d’essere altrove e trovare il proprio Io nella fantasia e nell’amicizia reciproca. Quindi, i regimi totalitari cercarono di togliere alla gioventù quel bagaglio di parole che potevano infondere in essa la giusta coscienza, ossia la consapevolezza d’essere solo bambini che volevano mantenere la loro singolarità.

La semplicità delle amicizie, i rapporti tra genitori e figli e lo scegliere fra la vita e la morte hanno scandito la vita di vecchie generazioni che sono dovute crescere per forza, nel bene e nel male, e il film è l’ esempio di come un’anima, soggiogata dall’orrore e la tristezza dell’esistenza, si aiuti a diventare libera scoprendo altre profondità in cui potere essere sciolta da paletti ingiusti e terribili, quali la disuguaglianza (Liesel è considerata la figlia di una sovversiva), l’ appartenenza a una famiglia non nostra (molti bambini nella Seconda Guerra Mondiale venivano adottati per ricevere sovvenzioni dallo Stato e venivano sradicati dalle proprie origini), o la libertà di poter considerare amici anche chi non è in linea con le idee comuni (Rudy, l’amico di Liesel, è un ammiratore di Jesse Owens, l’eccezionale velocista statunitense nero campione olimpionico alle Olimpiadi di Berlino del ‘36, che indignò non poco Hitler stesso).

Ad una lettura più attenta, “Storia di una ladra di libri” è un film dalla fotografia bellissima, una regia molto ben fatta, classicheggiante ma lineare e introspettiva, una sceneggiatura che perfettamente spiega e fa entrare nel pathos filmico degli avvenimenti, resi tali da una bella colonna sonora posta sul piano dell’interiorizzazione sentimentale, diretta da John Williams, compositore statunitense che ha firmato le musiche di molti film di Steven Spielberg tra cui “Jurassic Park”. L’interpretazione eccellente di alcuni personaggi-attori ne completa il quadro positivo, che riporta allo spettatore la storia di un best-seller che non rinuncia a vedere una prospettiva meno angosciante e allo stesso tempo dolorosissima verso l’universo intellettuale della cultura, una cultura umanistica che nei regimi doveva venire rimossa per non creare dissipazioni dall’unica dottrina del Totalitarismo belligerante.

E’ un’opera dai momenti felici e dai momenti indimenticabilmente strazianti che non merita di essere portata via dalla grande rosa dei film da vedere perché, nel suo angolo da cui ha ricevuto bene e male, è un bellissimo spaccato di sentimenti, umanità e struttura filmica che, a mio parere, è bello poter sapere di aver visto.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati