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Grand Budapest Hotel

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Grand Budapest Hotel

di NOODLES98
8 stelle

Siamo in un albergo. Lo vediamo prima dismesso, con l'intonaco a pezzi, trasandato, triste, poco più che un ospizio per anziani, poi assistiamo ai suoi passati anni migliori. Sono gli anni trenta (precisamente il 1932), ed è anche in questo semplice ma drastico cambio d'aspetto dell'hotel che si cela tutto il senso dell'ottavo film di Wes Anderson. A Zubrowka (paese inventato nell'est Europa) sembra che tutto sia magnifico, fatto di marzapane, come essere immersi totalmente in un mondo fiabesco, e ci si dimentica perfino dell'imminente guerra che sta per sconvolgere il mondo intero, persino quello immaginario. Così, ci troviamo davanti ad un oggetto cinematografico strambo, schizzato, impregnato di humor nero e malinconia. In Grand Budapest Hotel, convivono l'avventura, il giallo, la commedia, l'azione, il dramma, un finale drammatico e persino quattro dita mozzate di netto (in una delle sequenze più divertenti e riuscite dell'intera pellicola). E niente è fuori posto o sconveniente, un po' come nella geometria calcolata al millimetro delle inquadrature del regista. La tenerezza e la dolcezza con le quali si affronta la storia (con la "s" sia minuscola che maiuscola) sono calibrate alla perfezione, come raramente avviene al cinema, e come soltanto lo stesso Anderson era riuscito a fare in anni recenti con il bellissimo Moonrise Kingdom. A fine proiezione, dopo che abbiamo visto un cosacco animato ballare la meravigliosa colonna sonora di Alexandre Desplat, si vorrebbe riguardare il film un'altra volta, per affrontarlo con il cuore più aperto possibile, sapendo cosa ci aspetta. Perché a una prima visione, si rimane quasi interdetti nella prima metà, davanti a tante idee geniali che però sembrano solamente sterili, senza uno scopo...ma Anderson riesce a demolire letteralmente questo nostro pensiero con una seconda parte fenomenale sotto ogni aspetto: inseguimenti a rotta di collo giù da una montagna, massacri, evasioni alquanto improbabili, omicidi grandiosi, fughe improvvise, viaggi in funivia (con tanto di scambio a mezz'aria), dialoghi ancora più frizzanti dei minuti passati e così via... E ci si accorge che se la prima parte ci era risultata forse leggermente noiosa, era soltanto colpa nostra, e per il nostro spirito verso un cinema FATTO di cinema, che deve moltissimo al muto (come dimostra la lunga sequenza finale della resa dei conti in albergo) e a un genere di cinema che (forse) non si fa più. Perché, in questo caso, stiamo parlando di uno dei migliori registi post-Duemila. Anderson, a soli 45 anni, ha già affermato da almeno un decennio la sua cifra stilistica diventata, dopo I Tenenbaum e Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou, pressoché inconfondibile. Grande narratore, in tutti i suoi film è presente, in un modo o nell'altro, la famiglia e i legami in essa creati. Dalla famiglia disfunzionale Tenenbaum, ai genitori oppressivi e incapaci di comprendere i figli che si danno alla fuga di Moonrise Kingdom, passando per la tensione sfociante in rivalità tra le due volpi cugine di Fantastic Mr. Fox, al non-figlio con lo squalo e i cavallucci marini di Henry Selick in Steve Zissou (a parer di chi scrive, il suo film minore) e i tre fratelli de Il Treno Per Darjeeling. In questo Grand Budapest Hotel, la famiglia è messa in secondo piano. O meglio. Anderson mette in scena personaggi senza famiglia (per colpa della guerra o per scelta personale) e in cerca di essa, come il protagonista Schwartzman di Rushmore. Zero Moustafa e Monsieur Gustave H sono due anime in realtà complementari, il primo figlio putativo e il secondo una sorta di padre adottivo o di Pigmalione. Persino nel finale, quando il povero Lobby Boy protagonista perde la moglie e il figlio per colpa della febbre, la famiglia svanisce in un attimo, nel giro di una sola frase che prende alla sprovvista, come l'improvvisa morte del concierge H: i colori sgargianti si spengono in un triste e solenne bianco e nero; una scena a lieto fine alla quale abbiamo già assistito si ripete, ma questa volta andando incontro ad un finale tragico. Ma la morte, così come la guerra, sono cose che interessano Anderson solo in parte. La morte fa parte della vita, e così non stona in un film felice che rallegra e, grazie al suo calore, riscalda il cuore. Come la morte di Owen Wilson in Steve Zissou, qui non è affrontata con tristezza e amarezza, ma, come già detto, semplicemente come parte integrante della vita, di cui il film è in realtà un elogio. Le frequenti morti che si susseguono nel racconto non sono pesanti e non appesantiscono un film leggero, divertente, ma non per questo stupido, che affronta l'avventura in modo infantile, ma non per questo poco coinvolgente e/o intelligente. Siamo davanti ad un oggetto strano, un oggetto unico nella sua commistione di generi. Il talento di Anderson è anche da riconoscere nella bellissima regia (panoramiche a schiaffo, carrellate lente e veloci, campi lunghi, tutti usati al momento giusto e nel modo giusto) e nella scelta degli interpreti, che abbonda di nomi famosi (Ralph Fiennes-sopra tutti insieme a- Adrien Brody, Willem Dafoe-splendido nella parte dello psicopatico-, Tilda Swinton, Bill Murray, Tom Wilkinson, Jude Law, F. Murray Abrham, Owen Wilson, Saorise Ronan e l'esordiente Tony Revolori), tutti adeguati, e tutti bravissimi a incarnare personaggi perfettamente caratterizzati e particolari, che recitino per un minuto o per l'intero film. Grand Budapest Hotel se non è il più bello dei film del regista (c'è una gran lotta tra questo e Moonrise Kingdom), e sicuramente il più maturo, il più compatto e il più originale (dalla costruzione a scatole cinesi allo svilupparsi della storia) . Un gioiello.

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