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Grand Budapest Hotel

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su Grand Budapest Hotel

di EightAndHalf
7 stelle

Manierismo giocoso.

 

 

Un tempo gli alberghi isolati fra le alberate montagne innevate erano tetri e desolanti, microcosmi di solitudine e di rabbia, dove le pareti accese e monocromatiche destavano follie omicidie implacabili (l'Overlook Hotel che sempre guarderà "oltre", o "dominerà dall'alto", secondo il significato). Oggi invece, o meglio in un fantomatico 1932, che mai vide guerre e/o isolati staterelli simil-polacchi, i colori pastello degli interni del Grand Budapest Hotel non incutono terrore, angoscia, agorafobia strozzante, ma neanche rilassamento, quiete, tranquillità. Il ritmo invece con cui si succedono gli ambienti, le situazioni e i contesti in Grand Budapest Hotel è indiavolato, infervorato, tutto alla mercé di una trama lineare condita di siparietti grotteschi e assai satirici che pure lasciano emergere piccole trovate registiche a tratti fulminanti. E' vero che Grand Budapest Hotel di Wes Anderson è un film giocosamente manierista, una bomboniera lucida e ingigantita dall'abilità esibita del regista americano, pronto a fare sempre del suo minimalismo espressionistico una chiave di lettura assurda e vorticosa degli esseri umani e delle loro piccole follie. Però è anche vero che, andando oltre l'evidente autoreferenzialità, l'intera confezione filmica genera una coerenza e una funzionalità di fondo che rende estetica e contenuti armonici oltre che ottimamente dosati, nonostante le esagerazioni, i rocamboleschi twist, i capitomboli forzati. 

Come tutti gli ottimi film (anche se siamo qualche gradino più in basso del solitamente inteso "ottimo film", causa il manierismo già citato), Grand Budapest Hotel è affrontabile a partire da tre registri differenti, che tengono conto di forma, eventi, situazioni e stile generale. Il primo livello è identificabile con il film di intrattenimento, quello che farà leccare i baffi più i cinefili che i telespettatori hollywood-addicted, perché dietro la scelta dell'eterogeneo e stellare cast (da Bill Murray a Ralph Fiennes con apparizioni di Léa Seydoux, Tilda Swinton, Owen Wilson e molti altri) sta anche il brio e l'occhiolino al conoscitore dei volti e quindi a colui che può divertirsi a inserire quelle facce in quei contesti che pure non hanno mai visto altri volti nella storia del cinema (sull'originalità del cinema di Anderson è inutile stare a interloquire). Dunque chi si aspetta il kolossal o la commedia romantica con facilone incursioni nell'avventura o nell'azione fracassona può stare fresco, Wes Anderson ha sempre uno sguardo quasi attonito di fronte all'evidente divertimento di certe situazioni da lui stesso messe in scena, uno sguardo tale de rendere sempre irriverenti più che banalmente "avvincenti" le scene più movimentate.

Il secondo livello configura il film come grande metafora, e qui la storia si fa più lunga e complessa perché tiene conto di fatti, avvenimenti, contestualizzazioni fittizie e diversificate che pure sembrano alludere in continuazione al conflitto mondiale (uno dei due in generale). La mitica sequenza di spari dentro l'albergo parla da sola: i cecchini e i pistoleri divengono indifferenziati, e si feriscono a vicenda senza ragione di sorta, come secondo un istinto brutale che cerca la scusa più immediata per esplodere. Tutto il film è una lotta continua fra due fazioni, l'una probabilmente più criticabile dell'altra, ma nessuna delle due davvero buona e rassicurante, fra sex symbol gerontofili e evasori impenitenti. Anzi, il carrettere volutamente macchiettistico e da cartone animato dei personaggi andersoniani è indice della loro grossolanità, della spiccata semplicità del loro essere, in totale coerenza anche con il costante senso di nonsense (antifrasi non voluta) che rende le loro azioni spesso prive di significato oppure talmente lampanti da scombussolare e dare adito a più osservazioni. In ogni caso, nella ricostruzione di un finto periodo storico, di finti personaggi e di finti conflitti mondiali, Anderson sembra prendere ispirazione dalla prima e dalla seconda guerra mondiale (la prima con il suo evento scatenante, l'assassinio di una nobildonna, non l'arciduca Francesco Ferdinando ma una contessa passionale ed impaurita, dallo sguardo inebetito e perplesso; la seconda dall'evidente somiglianza delle truppe guidate dal sempre esilarante Edward Norton con gli eserciti nazisti più invadenti e minacciosi). Ma il suo intento non è una simmetrica e arida emulazione per narrare chissà quale conclusione: il suo si rivela in itinere un graduale processo di demistificazione nei confronti degli argomenti più seri e disdicevoli (c'è anche qualche scenetta un po' violenta e un nudo frontale veloce veloce), come per dire che è tutta l'umanità immersa dentro il ridicolo e che il risultato di questa giostra colorata di rosa e di bianco  sembra essere un senso di vuoto e di distruzione totale. La realtà favolistica che racconta Anderson è d'altronde una realtà frammentaria, tesa ma squilibrata, si lascia sfuggire gli eventi nel loro normale procedere ed elabora scarti (anche in sede di montaggio) fulminanti e imprevisti, con il risultato di riuscire comunque a coinvolgere (in maniera impegnata) senza appesantire alcunché. Poi se si va a guardare alla piccola presunta (e fittizia) morale finale, ci si accorge che il protagonista è tale proprio perché "esempio di essere umano nell'umanità", come per dire che pure nella sua insensatezza e nei suoi immanenti difetti Mr. Gustave è un uomo capace di sentimento e dal grande cuore. Se poi non è così, in realtà (essendo tutto un flashback che passa attraverso una sognante soggettività), è un effetto voluto.

La terza via di lettura del film potrebbe essere invece l'ostentazione della sua falsità. Gli sfondi (uno sfondo paesaggistico ricompare sul palco della sala dove Jude Law e F. Murray Abraham cenano: il finto che osserva l'"ancora più finto"), il tono sopra le righe, i personaggi che appaiono e scompaiono, il grande albergo rosa confetto quasi in equilibrio precario nella landscape fumosa di monti simil-Carpazi immersi nella neve, qualche effetto speciale invadente, la stessa continua apparizione di volti famosi e stranoti per il pubblico internazionale, tutti questi fattori collaborano a rendere Grand Budapest Hotel un film eccezionalmente finto, impeccabile nella sua strabiliante menzogna. E questo non solo concorre al processo di demistificazione di tutto, ma diventa anche una riflessione sul linguaggio cinematografico e su come "vada raccontata una storia". Non è un caso, poi, che i livelli di finzione nel film si accumulino come in un terreno pluristratificato (così come le chiavi di lettura): il racconto principale è il racconto di un uomo testimone diretto e partecipe degli eventi, racconto fatto ad un altro uomo (Jude Law) che da anziano (Tom Wilkinson) decide di scrivere un libro, libro letto da una ragazza sotto la neve in un cimitero. Quello che ci viene riproposta è dunque una sequela di episodi di terza o quarta mano, estremamente finti, irrisolti, assurdi, apparentemente coerenti ma ricchi di motori interni che pure deformano le reali vicende e le idealizzano con abellimenti che si riflettono nei piccoli dolcetti che saranno a un certo punto per Mr. Gustave e un esilarante Harvey Keitel fonte di salvezza. Così le piccole bizzarrie diventano i corto circuiti di un rispondersi continuo di falsità che si gonfiano e si ingigantiscono per poi scoppiare come palloncini.

Il risultato è un film un po' meno cartoonesco di Moonrise Kingdom ma altrettanto divertente, originale, spedito, ancora più interessato alla narrazione, sempre più interessato ad affezionarsi ai suoi personaggi, che pur nel loro non appartenere alla realtà non sono semplici pedine nelle mani del regista, ma sono il risultato immediato e concreto dello sguardo nonsense del loro ideatore, temporanei abitanti di una vita inesistente che si compiace di se stessa e fa in modo che lo spettatore si compiaccia di lei. Brillante, imprevedibile, mai stucchevole, Grand Budapest Hotel è una gioia per la vista e un antidoto al cattivo umore, nonostante alcune svolte narrative drammatiche e un ripiegamento nel bianco e nero nel prefinale: Storia, Uomo e Guerra tutti nello stesso pout-pourri di sagace irriverenza.

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