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Venere in pelliccia

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Venere in pelliccia

di Lehava
10 stelle

Non sono i collant a tenere incatenato Thomas al cactus di scena bensì la improvvisa, piacevole consapevolezza che "Un uomo è sempre preda delle proprie verità. Quando le abbia riconosciute, egli non è capace di staccarsene" (Albert Camus "Il mito di Sisifo"). Il suo sguardo è spaurito, e nello stesso tempo sollevato. A tratti eccitato: la seduzione che l'ha condotto fin lì è quella del proprio "lato oscuro", della propria verità. Ora sotto i riflettori. Solo ora, in una fine che è inizio reale, riconoscibile.
Non serve aggiungere altro. La macchina da presa poco a poco si allontana, e, come furtiva era entrata in quell’universo circoscritto e misterioso che è l'animo di un uomo, così se ne va, scivolando oltre la porta. E sola resta la facciata di un teatro parigino che potrebbe essere Praga oppure Cracovia.

Nulla aveva o avrebbe fatto presagire quel tragicomico esito di giornata. 
Thomas sta cercando l'interprete giusta per il suo adattamento teatrale de "La venere in pelliccia", romanzo erotico dell'autore austriaco Leopold von Sacher-Masoch. Aveva provinato diverse attrici, trovandole tutte troppo impostate, troppo graziose, troppo false, troppo insignificanti. Melodrammaticamente, potremmo dire: tutte senz'anima. Oppure, non disponibili a mostrarla. Una delusione. Lo vediamo aggirarsi nel piccolo teatro e sulla scena: nervoso e stanco. Scrivo questa frase, ma mi sorge un dubbio: siamo veramente noi spettatori a vederlo? Intendo dire: non è forse il nostro sguardo in qualche modo mediato, o, se si vuole, indirizzato, da un altro sguardo, più vicino e presente? Chi ci ha condotto lì, chi ha attirato la nostra attenzione su quell'angolo nascosto di mondo? La cinepresa si era mossa da fuori, leggera e tranquilla, lungo un viale alberato autunnale. Precisa eppure a tratti flessuosa, come il passo di una donna che indossi i tacchi: i passi corti e lineari, il peso sempre propeso un po' in avanti, il terreno accarezzato appena. La consapevolezza piena di essere osservata ed osservatrice in un mondo che, da lassù, appare diverso. Una musica l'accompagna, melodica ma dall'orchestrazione più complessa del previsto: riecheggia di mitteleuropa, di immagini sbiadite eppure è contemporaneamente francese. Poi la svolta dolce, verso destra. Ed ecco che una prima porta del teatro si apre, e poi un'altra ed una tenda: lì, sotto gli strati, sta Thomas. Lavora, non ha chiuso a chiave. E dunque, senza bussare, in quella giornata grigia ed insoddisfacente, compare, inaspettata ai suoi occhi (ma cara ai nostri di spettatori. Perché è lei che ci conduce nelle ombre di questo ambiente chiuso eppure universale) Vanda. Un'attrice.
 
E' un'ingresso indubbiamente caustico, il suo: più che volgare, è schietta. Diretta e sincera (il romanzo? Un porno sado-maso. Il regista? Ha scoppiazzato, ops, adattato. La piece? Sessista). Non nasconde la propria prorompente femminilità, gioca immediatamente la carta dell'ignoranza. Perché ha davanti un uomo e: "La seduzione rappresenta il dominio dell'universo simbolico, mentre il potere non rappresenta che il dominio dell'universo reale" (Jean Buadrillard "Della seduzione"). E' proprio del maschio aspirare al dominio dell'universo reale: la Storia, la letteratura, la cronaca, il quotidiano di ogni donna grida questa verità. E Thomas non si sottrae a tale regola non scritta: le attrici precedenti erano "vestite tutte da prostitute o da lesbiche", afferma con rammarico: due modi anteposti e lontani di affermare una "libertà" individuale e di espressione difficilmente accettabile. Tutte scartate, evidentemente. Egli sta cercando una "Venere in pelliccia": una donna allo stesso tempo seduttrice e sedotta. Meglio ancora, sedotta dal proprio essere seduttrice. Dominata dal proprio dominio e quindi, più che mai, schiava di se stessa e della volontà maschile che la delimita. Nulla di tutto ciò è visibile in Vanda: assertiva in maniera aggressiva, gonna in pelle e trucco sfatto, a tal punto testarda da non lasciare scampo al regista. Il quale, poco convinto, cede alla richiesta di procedere comunque ad un provino. Ponendosi, a quel punto arrivati, in una posizione subalterna rispetto alla propria interlocutrice, che decide le luci di scena, la posizione sul palco, che propone gli abiti. E qui avviene quello che agli occhi di Thomas appare come un miracolo. Il miracolo.  Vanda si trasforma in Wanda, la protagonista della sua piece: la voce assume un tono profondo ed ammaliante; le movenze sono feline e conturbanti; il volto stesso si distende in espressioni di falsa ingenuità ritrovando, progressivamente, intensità e giovinezza; una stola in lana diventa una morbida pelliccia di lupo nero. Il regista cade preda di una seduzione inspiegabile ed incontrollata, quella per Wanda. Che Vanda, da attrice capace e tenace, riesce ad impersonare con tutta la propria maturità e consapevolezza: è il dominio dell'universo privato e simbolico su quello pubblico e concreto. La vittoria dell’Eterno Femminino, das Ewigweibliche secondo Goethe, salvifico e generatore di vita. La verità svelata di un Thomas sempre più somigliante a Severin. Una trasformazione reale, non da performance: negli occhi sgranati del regista il delirio di ammirazione e presunzione per la propria “creatura”: la protagonista, la scrittura. Perché è evidente allo spettatore, che ha il punto di vista di Vanda, una pericolosa commistione: tra uomo ed autore.  E’ una progressiva discesa negli inferi personali, fino ai confini estremi della onnipotenza maschile:  talmente forte da aver saputo plasmare Vanda in Wanda, dandole una forma elegantemente dominatrice. Talmente forte da non solo farsi possedere da Wanda, in una tensione sessuale a senso unico, ma addirittura da divenire Wanda stessa: penetrandone l’anima e succhiandola fino all’essenza, rendendola ciò che il proprio desiderio richiede.  La danza pagana finale sancisce la bellezza totale del corpo femminile sottomesso ad uno sguardo che è quello, unico, diretto, imperante, di Thomas. Finalmente uomo, regista, attore, attrice: non certo novello Penteo fatto a pezzi dalle baccanti quanto piuttosto astuto Dioniso, deus ex machina della narrazione e della azione: "Un uomo è sempre preda delle proprie verità. Quando le abbia riconosciute, egli non è capace di staccarsene" (Albert Camus "Il mito di Sisifo"). Non serve aggiungere altro: e la supposta protagonista, oramai inutile, scompare dalla scena. Lasciando l’inquadratura al vero ed unico personaggio. Severin che è Thomas che è Roman.


Come in un gioco di scatole cinesi, le interpretazioni si sovrappongono, si nascondono le une nelle altre, a tratti si contraddicono. E’ la “meta-cinematograficità” di “Venere in pelliccia” a confonderci. E Polanski si diverte un mondo a spiazzarci. Come suonasse uno “scherzo”: tremendamente serio, complesso, di difficile esecuzione, eppure breve e leggiadro. Perché i protagonisti. a dirla tutta, sono due sul palco. Forse anche quattro, e non è sempre facile distinguerli, in una sceneggiatura che cesella i dialoghi fra citazioni e “realtà” ricreando un piccolo mondo di irrealtà teatrale, che del teatro non ha tempi e modi, solo luoghi e tematiche. Il punto di vista, dall’ingresso in poi, è apparentemente quello di Vanda: non è stata forse lei a condurci lì? Non è forse lei a dare i tempi? Non si sente forse lo spettatore, dall’esterno, più in sintonia con lei, ospite, piuttosto che con Thomas, padrone di casa un po’ arrogante? Ma, paradossalmente, è altrettanto evidente lo sguardo registico, che illumina meglio e di più la controparte femminile in tutta la sua maturità sensuale: i seni pieni, le gambe tornite, scapigliata, la bocca di fuoco. Un modo di porsi assertivo, alla ribalta: erotico, languida sul divano, la cinepresa che segue con voluttà una cerniera che si chiude, dai tacchi verso l’alto, sempre più pericolosamente vicino all’incavo delle cosce. Il gioco di potere, più divertito che sadico, che si insinua fino ad imporsi in un crescendo di svelamenti e tensione, è primariamente formale. Tanto più voluto, tanto più perturbante. Per una Wanda che è musa, ma un Severin che impone puntigliosamente la propria subalternità. Come a dire: Emmanuelle che sola avrebbe potuto interpretare in maniera tanto calzante e convinta l’espressione del genio-padrone di Roman. Che è qui direttamente uomo, regista, attore (Amalric è il suo alter-ego. Senza ombra di dubbio: estetica o teorica) ed indirettamente attrice (perché Emmanuelle è sua moglie, perché Emmanuelle è madre dei suoi due figli, perché Emmanuelle è sua attrice appunto). Novello Dioniso.
 
Se i personaggi si moltiplicano, sono solo parossistiche sfaccettature di un unico. A tal punto che il film potrebbe essere interpretato anche come un sogno. Sogno, realtà, finzione, insieme sullo stesso piano: quello di un palco. Dove tutto è possibile, ma nulla è vero. Neppure la conclamata verità iniziale di Thomas forse, neppure quella di Roman. Che infatti, chiude l’opera con una citazione a smentire e confermare quanto sopra: la sua (di regista e di uomo) parola fine, affermazione di se e del proprio pensiero; ma, nel contempo, dubbio concreto di una supremazia, se non formale certamente sostanziale, della Donna. La quale, plasmandosi secondo i dettami di uno sguardo maschile, li fa propri al punto di influenzarli. Raggiungendo il dominio attraverso la volontaria rinuncia a qualsiasi potere.

“Venere in pelliccia” è un film ispirato, lineare e complicato. Senza una sbavatura, coinvolge lo spettatore in tutti i suoi 96 minuti, avvalendosi di una sceneggiatura eccellente in cui spiccano per vivacità e rigore i dialoghi; un montaggio fintamente “naturale” perfetto; una fotografia che gioca senza eccessi di luci e di ombre e sa dosare lucidità (nei primi piani della protagonista, nel sottolineare la sua evoluzione estetica) ed opacità (ovvia, negli interni). Curata la colonna sonora: Alexandre Desplat (che ammetto di non amare) ispirato, come sempre il pianoforte in primo piano. In generale il sonoro: anche i silenzi hanno spazio, uno spazio che delimita ed intensifica il senso delle parole.  
Straordinaria, per intensità e compostezza, l’interpretazione di Mathieu Amalric. Incredibilmente, pure quella di Emmanuelle Seigner: a dimostrazione di come un regista capace possa riuscire a trarre il meglio dai propri collaboratori. Tra l’altro, la stessa Seigner ha una fisicità, un’età perfetta per il ruolo.  
Tutto è curato nei dettagli, dalle scelte scenografiche agli splendidi titoli di coda che chiudono su una orgogliosa Venere di Milo (la cui bellezza campeggia in una grande sala del Louvre, vera immortale dea di morbido marmo bianco).
 Spicca, e non poteva essere altrimenti, la regia di Polanski. Se, come ribadito in altri commenti, questo film non aggiunge forse nulla alla poetica già chiara dell’autore, certamente la esplica in maniera limpida, caricandola di allusioni ed illusioni.
E soprattutto, riesce a mantenere con maestria  un registro nello stesso tempo ironico - non mancano i sorrisi - e profondo. Ecco perchè si esce dalla sala affascinati e perplessi: ognuno con la propria "Venere in pelliccia": tutte naturalmente vere, tutte inesorabilmente fittizie
 

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