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Il caso Kerenes

Regia di Calin Peter Netzer vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il caso Kerenes

di Theophilus
7 stelle

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Il caso Kerenes, nelle sale italiane, è un drammatico lungometraggio diretto da Calin Netzer e ambientato nella Romania dei nostri giorni. I temi trattati ne fanno, però,  un modello applicabile al di fuori di confini geografici e temporali.

Una madre ossessiva (e sinceramente convinta di non esserlo) si adopera con ogni mezzo a sua disposizione per salvare il figlio. La cinepresa è per buona parte della durata del film incollata sugli occhi della protagonista, Luminita Gheorghiu, sulle cui spalle gravano pertanto i maggiori oneri, le responsabilità principali e il compito d’illustrare una vicenda in cui si respira tutta la pesantezza di una classica tragedia greca. Il regista, dunque, spia come lei vede il mondo. Quegli occhi non tradiscono mai incertezze, ma testimoniano il compito naturale di portare a termine un mandato, il fine per cui lei (come ogni madre) sta al mondo: salvare il proprio figlio.

Netzer riesce molto bene a trattare l’argomento in maniera oggettiva, dipingendolo come un destino ineluttabile. Il maschio è produttore di sperma per continuare le generazioni, la femmina è fattrice e protettrice della specie. Nel film, il risultato è un figlio castrato, un figlio che ha paura di generare ed è ossessionato dalla preservazione di sé, germe inoculatogli dalla madre. Qui è la tragedia, in questo contrappasso non riconosciuto che disgrega dalle fondamenta il nucleo stesso della vita.

Barbu, figlio trentaquattrenne di Cornelia – “donna di 30 anni che ne dimostra 60” – ha investito ed ucciso con la sua auto un ragazzo di quindici. L’incidente automobilistico viene rimosso, caparbiamente cancellato, ridotto a incidente di percorso di un’esistenza matrigna contro cui la donna combatte la sua crociata.

Il mezzo della corruzione è un’arma la cui legittimità non viene mai messa in discussione, serva ovvia di un bene supremo da salvaguardare in ogni caso. Solo alla fine della storia, la donna riuscirà a capire la protesta del figlio, quando lo libera dall’abitacolo dell’auto in cui l’aveva bloccato, impedendogli, di fatto, la  possibilità di una crescita, l’assunzione della propria responsabilità, la liberazione di sé. Barbu esce dalla macchina e compuntamente riesce a confessarsi col padre della vittima.

Sembra ovvia retorica e un po’ dispiace scriverlo. Il “quadro” potrebbe essere tranquillamente nostrano e riteniamo probabile che il regista abbia inteso sottolinearlo. Nella colonna sonora si ascoltano, infatti, due canzoni italiane dal titolo inequivocabile, “Senza giacca e cravatta” di Nino D’Angelo e “Meravigliosa creatura” di Gianna Nannini, come pure si assiste ad una prova pubblica di una rappresentazione operistica cantata nella nostra lingua. Il nome della donna, poi, rimanda inequivocabilmente alla matrona romana madre dei Gracchi, “i suoi gioielli”.

Se i “colpevoli” appartengono alla classe borghese, non si può, però, nemmeno dire che la povera gente sia salvata dal regista. La lunga, dolorosa scena finale, in cui Cornelia parte con l’idea di circuire la famiglia della vittima e in cui forse ha inizio la sua redenzione, termina con l’esibizione dell’unico oggetto che i genitori serberanno del figlio: il telefono cellulare attraverso cui hanno ascoltato le sue ultime parole.

Orso D’oro e Premio della Critica Internazionale a Berlino 2013.

 

Enzo Vignoli

8 agosto 2013.

 

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