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Piccole crepe, grossi guai

Regia di Pierre Salvadori vedi scheda film

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La recensione su Piccole crepe, grossi guai

di logos
8 stelle

Piccole crepe, grossi guai. E perché non intitolarlo Piccole crepe? Oppure soltanto Crepe? ma sarebbe bastato semplicemente Intorno al cortile o addirittura Intorno alla corte, dato che il titolo di questo capolavoro è appunto “Dans la cour”. Con questo titolo in italiano, il film appare molto meno di quel che è nell’essenza, sembra cioè una bella commediola francese, che lascia trapelare qualcosa magari di sentimentale o tutt’al più di intimista, giusto per ridurre la grandezza francese, amalgamarla e confonderla con il cinema dozzinale, quanto basta per meritare una sufficienza da parte dei critici. E purtroppo, a mio avviso, così si rischia di prendere una cantonata, perché quest’opera è semplicemente un capolavoro, da considerare alla stregua di alcune altre pellicole che hanno costellato i primi 15 anni del nuovo millennio sulla insensatezza dell’esistenza.

 

Con magistrale discrezione, riprende esistenze in un condominio, il loro pulsare nei silenzi, nei rimproveri reciproci, nelle dicerie, nell’equivoco e nella chiacchiera, nelle ossessioni e nelle dipendenze, il tutto con una ripresa molto aderente alla quotidianità, senza esprimere giudizi di valore, ma con un’accuratezza fenomenologica in cui realismo e introspezione si coniugano in una felice armonia delle profondità senza perdere in leggerezza. Un’opera che sa stare in equilibrio sopra un abisso, in grado di farcelo guardare senza precipitarci dentro, il che è un’operazione essenziale, perché ci aiuta a prendere coscienza di quanto sia vertiginosa l’esistenza, vissuta proprio nella sua elementarità civica del quotidiano.

 

Ci troviamo di fronte innanzitutto al protagonista ( Gustave Kervern), un uomo depresso, di mezza età, stanco di tutto, del mondo e di se stesso, che ha lasciato il suo passato musicale, di colpo, senza dar retta più a nessuno; e lo rivediamo seduto su una panchina, con i suoi problemi di tossicodipendenza, assorto in se stesso, che si trascina lentamente verso l’agenzia di collocamento, per ricevere la notizia che forse c’è un’occupazione giusta per lui, quella di essere il portinaio di un condominio. Antoine accetta, e si ritrova al colloquio con i coniugi Matilde (Catherine Deneuve) e Serge (Féodor Atkine). Già questa scena è indicativa dell’humor mesto e fatalistico, uno degli elementi che caratterizza il film. Matilde è tutta presa dalla sua opera di volontariato che non ha tempo di considerare, tra una telefonata e l’altra, l’adeguatezza di Antoine all’occupazione da svolgere, nonostante fosse proprio lei la promotrice della richiesta di un nuovo portiere, mentre suo marito Serge non sembra essere molto convinto, perché pare che Antoine sia un tipo indolente, un po’ troppo introverso e poco comunicativo. Fatto sta che Matilde dice si’, forse per togliersi il marito di torno e continuare così con le sue telefonate. Fatto sta che in un modo quasi casuale e fatale, senza che nessuno abbia davvero deciso, Antoine viene assunto.

In questo nuovo lavoro, Antoine, grazie anche al supporto della cocaina, cerca di accontentare tutti gli inquilini, mediando i loro potenziali conflitti, diventando persino, contro voglia, protettore di un seguace di una setta religiosa, il quale, non avendo posto dove dormire per sé e per il suo cane, viene sistemato in segreto (sempre contro voglia) dallo stesso Antoine a dimorare presso le cantine, nonostante Antoine debba continuamente far fronte alle domande sospettose di un inquilino ossessivo dei rumori, e a cui pare di sentire un cane abbaiare la notte. Grandiosa la scena in cui il suddetto inquilino, per cercare di stanare il cane, di notte si mette ad abbaiare come un forsennato alla finestra, il tutto ripreso dagli occhi di Antoine, che nella sua depressione alleviata dalla cocaina trascorre le notti insonni, facendo amicizia con un altro inquilino cocainomane. Tutte queste dinamiche (la protezione del fanatico religioso, l'amicizia con l'inquilino tossicomane) nascono e prendono una direzione per pura fatalità, come se Antoine ne fosse l'artefice soltanto perchè si lascia inglobare dalle dinamiche stesse, quasi portando su di sè il peso di un mondo senza senso.

Soprattutto diventa fondamentale il rapporto che si viene a realizzare tra Antoine e Matilde. Matilde è una donna ormai verso la terza età, con le sue rimosse crisi, che cerca di nascondere sè a se stessa con una vitalità pratica, tutta incanalata nell’aiuto del prossimo e per il buon andamento del quartiere e del condominio. Ma a un certo punto in lei accade qualcosa. Si fissa sulle piccole crepe presenti in una parete della sua abitazione. Nonostante il marito cerchi di sminuire, per Matilde quelle crepe diventano una vera e propria preoccupazione, quasi un’ossessione, al punto che, non paga del parere di un esperto comunale, raduna una riunione di quartiere circa i pericoli che possono esserci nelle fondamenta, non soltanto per il condominio ma anche per l’intero quartiere (il rinvio simbolico a una civiltà in decadenza sembra quasi d'obbligo).

Ma la riunione sortisce un nulla di fatto, anche per via dell’inceppamento del proiettore su una immagine che riprende il capo di un individuo sotto le macerie, provocando il disgusto degli astanti che se ne vanno inorriditi. A causa di questo fallimento, Matilde si chiude in una depressione progressiva, fino a cercare l’aiuto di Antoine, l’unico nel quale riesce a trovare un rifugio, a scapito di suo marito, che oramai vorrebbe internarla. Tra Antoine e Matilde inizia un viaggio esistenziale, nel quale ciascuno diventa lo specchio dell’altro, ma nessuno può fare molto per l’altro di oggettivo, anche se nell’invisibilità del dialogo esistenziale i protagonisti sembrano trovare una tregua temporanea alla loro insensatezza. Temporanea, perché Antoine ritroverà se stesso nel non senso di un’overdose, mentre Matilde, a causa di tale disgrazia, riprenderà la propria vita di prima, ma con la consapevolezza che l’esistenza non può fare a meno di confrontarsi con le sue crepe.

 

Questo film possiamo dire che sia innanzitutto una panoramica sulle variegate esistenze del ceto medio borghese, contraddistinto dalle sue ansie, fobie, manie di grandezza, dipendenze, rispettabilità e trasgressioni, su cui pesa una strisciante fatica di essere nel mondo. Questa fatica esistenziale viene poi personificata in Antoine, oppresso com’è da un intangibile senso di colpa e di vergogna, che non va letto, a mio avviso, in termini psicoanalitici, ma in termini appunto esistenziali, come se quel senso di colpa stia lì a segnalare la gettatezza dell’esistenza stessa, che nella sua totalità risulta essere senza fondamento, gratuita e non necessaria, fino a suscitare un senso di nausea, come direbbe Sartre. Ma in questa insensatezza siamo tutti coinvolti, non c’è alcun riscatto, perché come direbbe sempre Sartre, a queste condizioni, per il per-sé, quale nulla d'essere, non fa alcuna differenza ubriacarsi in una bettola o guidare popoli. Altro che commedia… E un’opera che senza eccedere fotografa la drammaticità dell’esistenza, con eleganza e linearità, solcando con equilibrio realistico l'onirico, il grottesco e l’humor, il tutto avvolto in una leggerezza poetica che diventa autentica profondità, così come la contemporaneità può ancora concedersi.

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