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20 anni di meno

Regia di David Moreau vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su 20 anni di meno

di M Valdemar
4 stelle

Quaranta anni fa, forse, da uno spunto più che esile come quello di una relazione amorosa contraddistinta dalla notevole differenza di età, avrebbe avuto senso e qualche buona speranza di tramutarsi in una commedia “di costume” riuscita.
Ora, molto, molto meno. A meno che non ci si voglia prendere in giro sorprendendosi del fatto che in questo caso è l’uomo ad essere la metà acerba e la donna quella matura. Per favore.
Dunque, dato un elemento (il soggetto) per nulla ignoto, tutt’altro, e già (a)variato in ogni manifestazione possibile in decenni di produzioni cinetelevisive, quali mai saranno gli sviluppi che da questo si possono ricavare?
A domanda stupida, risposta stupida. Ovvero: si pensi a quello che può accadere e, puntualmente, la pensata diviene una sequenza nel film. Compresa, ça va sans dire, la lieta conclusione.
Equivoci, peripezie, espedienti, conseguenze (dell’amore “proibito” e delle proprie azioni), qualche vago facile accenno satirico (oggetto il frivolo mondo della moda, c’è pure una sorta di replicante della famigerata Anna Wintour): il frullato di ingredienti non proprio freschi ha il sapore della prevedibilità e l’inconsistenza della medietà.
Banditi i gusti piccanti ed estremi, 20 anni di meno si beve rapidamente e se ne perdono le tracce ancor più velocemente. “Qualità” che appartiene a molto di quello che ci circonda oggigiorno - non solo in ambito cinematografico, s’intende -, cioè quando al prodotto si chiedono spendibilità e consumo, in nome di una leggerezza di facciata che tracima nell’effimero.
Ciò nonostante comunque l’opera di David Moreau non sia del tutto da buttare per il modo in cui lascia intendere una gradevole briosità purtroppo di breve intensità e durata, che avrebbe potuto indirizzare il film su toni meno usurati.
Difetta in scrittura, in capacità di concepire intreccio e dialoghi meno banali, laddove invece il copione opta per schemi stantii, meccanismi di altri (la confessione della donna nell’aula universitaria ricorda molto i “grandi” momenti tipici delle commedie americane) e personaggi-figuranti (si veda il padre di lui, interpretato da Charles Berling: puramente superfluo) di una narrazione in bilico tra brillantezza (almeno negli intenti) e burla.
Certo, siamo pur sempre lontani dalla insopprimibile insopportabile deriva verso la farsa e il provincialismo che connota molti beceri omologhi prodotti italiani, così come vi è da rilevare solo qualche accenno di volgarità, ma nel caso specifico questi sono, tutt’al più, requisiti “minimi”.
Non bastano qualche gag gustosa o battuta azzeccata (l’imberbe - e fortunatissimo, caspita! - studentello che per ritardare l’orgasmo prima s’affida ai numeri poi evoca - nell’ordine - Hollande e la Merkel; oppure, lo stesso così apostrofato da un’acida fotografa: «hanno rimpicciolito Dujardin!»), la mimica del giovane protagonista, Pierre Niney (discreto, tipica faccia da commedia francese) e l’indubbia avvenenza di Virginie Efira: David Moreau non convince, è come se ci si aspettasse da un momento all’altro che cambi ritmo e sferzi una virata vitale al film.
Non accade; e mentre si aspetta, tra fasi di stanca e situazioni riciclate, ammiccamenti vari e comprimari in stato di agitazione esagerata, il film finisce.









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