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Psyco

Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film

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Mabuse99

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Psyco

di Mabuse99
10 stelle

Un immenso capolavoro intriso, allo stesso tempo, di scioccante realismo e ineguagliabile forza concettuale.

Marion Crane, una malinconica donna borghese, ruba 40.000 dollari al suo datore di lavoro per raggiungere l’amante, ma è costretta a passare la notte presso il Bates Motel…

 

Città di Phoenix, tre meno diciassette del pomeriggio: una panoramica restringe il campo visivo fino a condurci nella stanza di un palazzo, dove i due protagonisti hanno appena consumato furtivamente un momento di intimità…Alfred Hitchcock inaugurava gli Anni Sessanta con una sequenza impregnata di erotismo. Mediante questo incipit audace e magnetico, il genio del cinema americano stilizzava tutta la sua poetica: l’occhio molesto del regista diventa quello dello spettatore, spinto al limite del voyeurismo attraverso ciò che – quasi ironicamente – l’autore non offre mai in modo esplicito. E Psycho – urlo echeggiante nel pantheon della settima arte – è forse il manifesto di tale pensiero. La pellicola – adattamento dell’omonimo romanzo di R.Bloch – rappresenta un punto nevralgico nella carriera di Hitchcock: venne infatti concepita tra il successo di Intrigo Internazionale (1959) e quello de Gli Uccelli (1963), capolavori che denotano la versatilità artistica del grande cineasta – il primo è una spy story dal ritmo serrato, ricco di umorismo e geniali intuizioni registiche; il secondo è un apologo sulla violenza della natura, un incubo ad occhi aperti dal sapore distopico. Ma a fare di Psycho una delle punte di diamante dell’ intera cinematografia è l’essenza “sperimentale” che il suo creatore decise di infondergli. Hitchcock si servì di un équipe televisiva e di un budget modesto, in modo da poter realizzare un lungometraggio che si avvicinasse il più possibile ad un’ esperienza filmica inedita e travolgente (sia per il pubblico che la troupe), libera da vincoli contenutistici o di produzione. Il film in questione ha tutt’oggi il potere di tradurre in immagini ciò che Hitchcock amava offrire agli spettatori: vivide emozioni, autentico intrattenimento e un’ impagabile contemplazione visiva. Girando Psycho, il Maestro del Brivido introdusse innumerevoli elementi di innovazione non soltanto alla sua filmografia, bensì al cinema stesso. Per la prima volta affrontò con ferocia tutte le tematiche scabrose e “scomode” che fino ad allora le sue pellicole si limitavano a suggerire: ambiguità sessuale, perversione, violenza e immoralità. Psycho si presenta come un esemplare campionario di questi “orrori umani”, offrendo un escalation che inizia con l’adulterio, passando per il furto, esplodendo nell’omicidio e sfociando nella psicopatia. Ed è proprio l’analisi di una mente contorta il fulcro tematico dell’opera: se fin dai primi minuti siamo portati ad immedesimarci nella combattuta Marion (Janet Leigh) – quella che crediamo essere la protagonista – il gioco può mutare inaspettatamente e proiettarci nella schizofrenia di Norman Bates (Anthony Perkins), il mite proprietario del Motel che vive solo con la madre. Addentrandoci nel suo orribile complesso edipico si può persino provare empatia, arrivando a sfiorare un livello di controversa personificazione. Hitchcock si dimostra abilissimo nel condurre lo spettatore in un vortice di mostruosità, in un labirinto di ossessioni che la componente audiovisiva del film esalta al meglio: la splendida colonna sonora firmata Bernard Hermann alterna motivi inquieti, riflessivi a passaggi impetuosi e taglienti; la suggestiva sigla iniziale disegnata da Saul Bass introduce i titoli con uno slancio grafico raffinatissimo, la fotografia – nitida ma ingrigita da tonalità cupe e squallide – di John L.Russel veicola un’emancipazione (tutta autoriale) dall’epoca dello sfavillante Technicolor. Eppure le eleganti scelte registiche messe in campo da Hitchcock non avrebbero mai potuto occultare, secondo la critica e gli studios americani, la natura oscena del soggetto…Ma cosa trasformò un B-Movie in un caposaldo della storia del cinema? Senza dubbio le intuizioni di un genio. Hitchcock riuscì a fondere indissolubilmente la forma e il contenuto, l’etica e l’estetica, lo spirito e la carne della sua creatura: la perfezione stilistica segnalata dal montaggio e dai movimenti di macchina restituisce grandiosamente la materia testuale della pellicola – i contrasti del bianco e nero sintetizzano il dualismo soffuso e inquietante che aleggia in ogni scena, i tagli di visuale appositamente realistici lasciano spazio all’immedesimazione – mettendosi al servizio di un macabro lirismo che diventa sublimazione estetica. A rendere epocale Psycho resta inoltre il metafisico accostamento tra elementi gotici, quali la cupa abitazione di Norman (ispirata ad un dipinto di Edward Hopper), e moderni come le autostrade dell’Arizona. La novità assoluta introdotta da Hitchcock consiste nella stilizzazione della figura del serial-killer – non più il gentiluomo borghese ne L’ombra del dubbio (1963) o L’altro uomo (1951), bensì una figura sfaccettata e grottesca plasmata sul modello della realtà. E’ poi incalcolabile la ripercussione che Psycho esercita sul cinema thriller/horror di tutti i tempi, continuando a rappresentare per molti cineasti un traguardo insuperato di capolavoro del terrore: Micahel Powell girò nello stesso anno L’occhio che uccide (incentrato sul voyeurismo più destabilizzante), H.G.Lewis portò alle estreme conseguenze la “poetica sanguinaria” di Psycho inaugurando il filone splatter con l’estremo Blood Feast (1963), Tobe Hooper approfondì la realtà scioccante dell’assassino mentalmente instabile con Non aprite quella porta (1974), Dario Argento “estetizzò” il concetto di omicidio con Profondo Rosso (1975), John Carpenter ripropose la suspance hitchcockiana in Halloween – La Notte delle Streghe (1978), Stanley Kubrick restituì al suo Shining (1980) l’afflato epico che si respirava nell’opera del Maestro, Jonathan Demme portò all’esasperazione la dimensione psicologica dell’ antagonista ne Il Silenzio degli Innocenti (1991)…Interamente costituito da una rassegna di “scene madri”, Psycho regala agli spettatori una delle sequenze più raccapriccianti mai girate: l’assassinio sotto la doccia. 45 secondi di atrocità visiva, un atto di violenza inaudita dall’intensità catartica. Si tratta di un vero e proprio miracolo registico: settanta posizioni di macchina orchestrano un montaggio serrato e ossessivo – volto a far percepire sangue e nudità senza effettivamente mostrarle – che si traduce in un’esperienza visivamente traumatica e, al contempo, liberatoria. Hitchcock conferì a questa scena la brutalità di uno stupro, consapevole che – eclissando le immagini più esplicite – la fantasia dello spettatore avrebbe saturato il “vuoto” tra un fotogramma e l’altro con visioni ben più scabrose, le quali si sarebbero poi ritorte contro la sensibilità del loro stesso ideatore.  Metaforicamente, la ripresa esprime l’incontro tra forze opposte – attrazione e repulsione, curiosità e disgusto – che fino a quel punto si erano soltanto sfiorate senza manifestarsi all’interno della pellicola:  nel momento in cui l’ombra scura dell’omicida si avvicina alla tendina della doccia, la tensione narrativa raggiunge il suo apice, fino a esplodere e distendersi con fervore orgasmico. Quando l’acciaio crudele della lama “bacia” l’epidermide di Marion/Janet Leigh si aziona un ingranaggio che stride nell’inconscio, che ci porta ad attribuire sembianze sacrali e profane, risvolti erotici e mortiferi all’episodio. Eros e Thanatos si avvinghiano sotto i nostri occhi. Si avverte una sensazione di vulnerabilità nell’assistere all’uccisione della vittima, ma allo stesso tempo l’indiscrezione del nostro sguardo si tramuta nell’aggressività del carnefice: la maestria di Hitchcock consiste nell’abbandonare il pubblico in un limbo teso tra il fascino del male e la passività del bene, coinvolgendoci in una schermaglia in grado di squarciare la dimensione filmica.  Il prodigio si compie nell’eternare una sequenza permeabile, che prende vita mediante la diretta partecipazione dello spettatore:  il regista ci porge il coltello e accende la macchina da presa.

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