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La vita di Adele

Regia di Abdellatif Kechiche vedi scheda film

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La recensione su La vita di Adele

di FilmTv Rivista
10 stelle

Il blu è un colore caldo. Si intitola così il graphic novel di Julie Maroh da cui Abdellatif Kechiche ha liberamente tratto La vita di Adele. Il blu che è negli occhi, sui capelli di Emma, il blu per cui Adele s’incendia d’amore. Di questo racconta il primo capitolo del film: di un’adolescente che esplora la propria identità, di un’educazione sentimentale, del rapporto amoroso allo stato nascente tra due donne di differente milieu. Nel secondo capitolo, Adele ed Emma sono una coppia. Convivono, ma l’abisso tra i loro ambienti sociali le marchia, le ferisce, le separa: la prima ora è un’insegnante d’asilo, l’altra un’artista, e il sentimento s’è fatto ballo fuori tempo, questione di attese e disattese, di proiezioni di sé sull’oggetto d’amore, l’arrancare stremato di una in direzione del desiderio dell’altra. C’è tutto, a fior di pelle, sulla superficie di La vita di Adele: ci sono le griglie socioeconomiche che strutturano il mondo, i conflitti privati e politici che si ripetono uguali, le retoriche trite in cui l’uomo si forma, le storie reiterate che usa per tenere insieme l’esistere. È uno strutturalista, Kechiche, uno che di fronte ai nostri occhi mostra le gabbie, le prigioni in cui siamo rinchiusi. E uno che guarda questa visione del mondo farsi attuale, fragile e tragica in ciò che eccede quei limiti, in ciò che non può ridursi a discorso: e allora La vita di Adele è, soprattutto, un film di attrici, di corpi che amano, godono, soffrono, un film di lacrime e sudore, bava muco e saliva, di lingue tese e tremanti, di bocche affamate, assetate d’acqua, vogliose d’umore. Un film che fa musica affastellando particolari e dettagli, cercando le emozioni tracciate dai piccoli gesti. Un film che accumula primi piani nella lunga durata, nel CinemaScope, concedendo il tempo e lo spazio perché un volto, uno sguardo e un sospiro si facciano paesaggio interiore. È cinema che sta tra il teatro e la televisione, che legge Marivaux, guarda Cassavetes: da un testo chiuso, politico, funereo, un film aperto ad abbracciare la vita, un commovente melodramma naturalista, qualcosa che diremmo “ritratto” se solo non fosse in movimento continuo. Un capolavoro, firmato dal più grande affabulatore realista del cinema d’oggi.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 43 del 2013

Autore: Giulio Sangiorgio

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