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Il sale della terra

Regia di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado vedi scheda film

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La recensione su Il sale della terra

di Kurtisonic
6 stelle

scena

Il sale della terra (2014): scena

Ma esistono davvero diversi tipi di pubblico, o si tratta di un unico corpo indifferenziato, proteso a carpire frammenti di una cultura polverizzata, offerta in maniera difforme e confusa, adatta a soddisfare una domanda più che urgente, che possa sintetizzare lo smarrimento e il disagio di un’epoca? Chi ha visto la grande mostra itinerante dedicata al grande fotografo Sebastiao Salgado, farà parte dello stesso pubblico che ha bisogno di vedere le sue foto  in un’altra modalità, magari raccontata, o meglio in movimento e a dimensioni cubitali? Forse questo resta il più grande merito di Wim Wenders, proditoriamente orientato ad allontanarsi dal cinema di finzione almeno per ora, per dedicarsi ad un lavoro di pura documentazione, cioè l’avere portato in sala anche persone che, se possibile, scoprono adesso il lavoro di un grande testimone del nostro tempo. Scontato dire che la fotografia è una delle grandi passioni del regista, e che nel racconto documentaristico ha già prodotto lavori di valore considerevole, dagli anni 80 fino al 1999 facendone  convergere un altro suo grande amore, la musica, con Buena vista social club, per arrivare infine allo straordinario Pina(2011) saggio e testamento sul teatro danza della grande coreografa e  amica di Wenders che così ha realizzato finora l’unico vero risultato significativo con la tecnologia 3D da parte di un cosiddetto autore. Se si considera Pina come una tappa del percorso del regista da cui andare avanti non si può che considerare Il sale della terra come una battuta d’arresto. Mentre dal lavoro su Pina Baush affiorava l’occhio esterno del regista che aveva il dono di far parlare un’immagine magistralmente ripresa, ma che neanche un punto di vista alternativo ne poteva manipolare la materia e l’essenza, diciamo l’anima più profonda che ne scaturiva( tra l’altro da pochissime frasi della coreografa, mentre erano le scene di ripresa a comunicare), davanti alle grandi foto di Salgado viene spontaneo chiedersi cosa si può aggiungere ad esse, alla loro forte esplicità emotiva. Questo giustificherebbe la necessità della documentazione cinematografica, per offrire non un tributo o un omaggio al grande fotografo che ha fatto scuola a chiunque, ma per spiegare il punto di vista operativo che la fotografia sociale e di denuncia di Salgado richiede.  Con la fotografia non si parla di una materia viva e pulsante ma della sua trasformazione in immagine, nella sua possibile manipolazione. Se ci allacciassimo doverosamente al saggio guida di Barthes, La camera chiara, con la sua imprescindibile e schematica filosofia di lettura dell’immagine fotografica, non potremmo che far confliggere i due elementi cardine che il grande saggista individua: aspetto razionale ed  emotivo che riguardano il fruitore, lo spettatore in questo caso, dove il secondo elemento prevarica sempre sull’altro. Wenders opta per un racconto con voce fuori campo dello stesso Salgado che parla della propria vita, delle scelte e dei momenti determinanti che lo hanno indirizzato nella sua attività. Ne viene fuori un ritratto umano, autenticamente provato dal suo lavoro, ma la distanza fra quella realtà dolorosa e tremenda che immortala e quella “stampata” in camera oscura non si accorcia, nè viene in qualche modo svelata. Non si può paragonare certo l’artificio tecnologico a cui oggi un adepto smaliziato di foto ritocco può accedere , ma ancora di più Salgado proviene storicamente da un lavoro evolutivo e magistralmente artistico che la camera oscura consentiva, dove l’elemento umano era determinante per acuire drammatizzazioni, filtrare sentimenti, sfumare o scolpire sensazioni da trasmettere. Che il fotografo abbia agito in buona fede e in coscienza di sé non c’è dubbio, il risultato si legge dalle immagini degli “inferni” creati dall’uomo che ha scovato negli anni e che oggi onestamente dichiara insostenibili davanti al suo sguardo. Sarebbe stato però significativo, guardare come quelle realtà si sono trasferite sulla stampa e in che misura l’occhio umano ha sottolineato o come viene solo citato marginalmente, hanno avuto talvolta la forza di farlo piangere e che modificazioni hanno prodotto. Positiva invece è la selezione delle immagini scelte, davvero poche e contenute quelle dei ritratti più eclatanti, platealmente predisposti alla drammatizzazione, quasi alla stilizzazione o al rischio iconografico… Molto più efficaci restano quelle che al loro interno sviluppano un racconto, una realtà più articolata, per dirla cinematograficamente, un piano sequenza fotografico, dal quale però come detto viene ignorato il lavoro di cesellamento e di taglio dell’immagine. La nuova dimensione esistenziale del fotografo dedito alla riforestazione in Brasile e alla fotografia naturalistica non giova a fugare qualche ulteriore ragionevole dubbio.

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