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Star Trek Into Darkness

Regia di J.J. Abrams vedi scheda film

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La recensione su Star Trek Into Darkness

di lussemburgo
8 stelle

Stabilito l’assioma di innovazione con il primo capitolo della più recente declinazione (o reboot) di Star Trek, per il successivo film Abrams opta per una diretta prosecuzione, con vari riferimenti all’episodio inaugurale, i cui eventi vengono variamente rievocati e i personaggi riproposti, secondo una logica di continuità tipica della serialità televisiva. Il salto nel tempo della puntata pilota aveva scaraventato i protagonisti noti nell’universo del possibile, slegando le vicende dalla stretta osservanza della tradizione, stratificata nei decenni dalle varie serie e stagioni del franchising di Roddenberry, e liberando gli sceneggiatori da qualsiasi ortodossia per lasciare ogni allusione rivestita dall’elegante orpello dell’omaggio e della citazione. Ma è proprio alla memoria storica, interpretata senza costrizioni, che si rifà Into Darkness, amalgamandovi il contenuto del film precedente per inserire più precisamente il film e il filone all’interno della consuetudine, pur mantenendo ogni licenza di tradimento sì da stabilire i termini del nuovo canone.

Ed è sotto la cortina fumogena (come esplicitamente ammette il film) di una falsa identità (John Harrison, interpretato con la consueta verve sardonica di Sherlock da Benedict Cumberbatch) che si nasconde il vero antagonista, Khan, il super-uomo geneticamente modificato tre secoli prima, durante le guerre eugenetiche che hanno devastato la Terra, come si è precisato nelle serie regolari. E nella trama della sua pellicola Abrams cela quella de L’ira di Khan, il secondo film della declinazione cinematografica classica, con cui presenta paralleli e simmetrie più che evidenti. Non solo vi appare il medesimo nemico, proveniente dalla serie originale, ma vi muore (temporaneamente) uno dei protagonisti, irradiato per salvare la nave in avaria e ripristinarne i motori, con l’amico che lo osserva morire al di là di un vetro. Il personaggio di Carol Marcus, con alte qualifiche scientifiche, è presente nei due film dove suscita l’interesse personale di Kirk (in quanto passata o, probabilmente, futura compagna). E nelle due pellicole corpi (defunti o criogenizzati) vengono disposti in loculi volanti.

Non mancano, ovviamente altri riferimenti sparsi, la citazione della “Prima direttiva”, ovvero il dogma di non interferenza con civiltà dallo sviluppo tecnologico inferiore (introdotta però nella continuità soltanto a partire da The Next Generation), così come la presenza dei Triboli, animaletti pelosi presentati nella serie classica in un episodio poi rivisitato (con modalità di interazione di nuovi attori all’interno del filmato originale) in Deep Space Nine, o come diverse altre allusioni diffuse. Nello studio dell’Ammiraglio Marcus una sequenza di modellini delle astronavi umane, dai razzi a stadi successivi sino all’odierna “Enterprise”, dà consistenza fisica alla sigla di Enterprise che vedeva i vari passi dell’uomo nello spazio concludersi con il varo dell’omonimo vascello. Lo stesso Peter Weller aveva partecipato alla serie prequel come terrorista xenofobo intento a cacciare ogni presenza aliena dalla Terra, mentre ora incarna un Ammiraglio della pacifica Federazione dei Pianeti pronto a scatenare una guerra interspecie per sconfiggere, anticipandoli, i bellicosi Klingon. Questi, infatti, si muovono dalle frontiere del loro spazio occupando un pianeta alla volta per ampliare il proprio impero. Kahn, infine, vuole riunirsi ai suoi uomini, ugualmente modificati, per terminare e vincere la guerra contro la razza umana che li aveva prodotti e sfruttati come soldati implacabili.

Razzismo, genocidio e bellicismo sono gli argomenti di base della trama di Into Darkness, tutti provenienti da aspirazioni assolutistiche (passate o presenti) che nascondono velleità di critica politica (o, perlomeno, di polemica) all’interno di una confezione d’azione perfettamente funzionante nella sua aspirazione da blockbuster. Il timore di un’azione devastante in risposta ad un intervento militare preventivo si manifesta, infine, nella devastazione di San Francisco operata attraverso un velivolo lanciato contro i palazzi della città a mietere vittime e grattacieli, con una citazione, amplificata dalla spettacolarità e dall’ambientazione futuristica, dell’attacco alle Torri Gemelle che risuona della traumatizzata inquietudine che pervade l’immaginario americano dal 2001 in poi e che si riverbera in molte espressioni cinematografiche e seriali.

Il costante riutilizzo di appigli provenienti dalla mitologia storica delle serie, recuperati e miscelati al nuovo filone, offre una metafora applicata della metodologia del reboot, ovvero una lettura meta-narrativa del recupero sensato di una sedimentazione progressiva a cui dare nuova linfa romanzesca e aggiornamento stilistico. Si tratta del principio di variazione sul tema, base della logica del racconto ad episodi, evoluto nella serialità televisiva matura che costruisce su premesse date racconti successivi che si rinnovano senza mai (nel migliore dei casi) negare il passato che, così, diventa memoria arricchita dal presente della narrazione. Ancora una volta il film termina con la sigla della serie classica, a cui ridà l’avvio. Se in Star Trek – il futuro ha inizio, si citava il viaggio impavido verso luoghi mai prima visitati dall’uomo, adesso si fa riferimento all’altra parte dell’introduzione originale, con il progetto di un’esplorazione quinquennale nello spazio profondo che apre i prossimi capitoli ad avventure spaziali in sfere volutamente extraterrestri e vero preludio alla declinazione più classica della serie. Lo iato tra le due pellicole era stato riempito da alcuni volumi di fumetti che, con la modalità tipica della narrazione seriale espansa, si inseriva nell’universo di riferimento creato dal film per svilupparvi altre storie e condurre i protagonisti alle vicende di Into Darkness, come probabilmente albi analoghi riempiranno la pausa d’attesa del prossimo film.

Se nella scena dell’assalto al Comando della Federazione sembra rinvenire un’eco dell’attacco ai capi mandamento mafiosi riuniti all’incipit del Padrino: parte III, Abrams non si nega allusioni più o meno adombrate a Spielberg, nell’inseguimento iniziale svolto per tono (ironico) e ritmo (sfrenato) alla maniera di Indiana Jones, con tanto di sovrimpressione a ricalco, non della montagna della Paramount ma delle forme dell’astronave. Ma è soprattutto all’amata saga di Guerre Stellari a cui si allude spesso, poiché la navicella usata da Kirk per l’incursione nello spazio Klingon è modellata sul Millennium Falcon e la copertura pensata per entrare in territorio nemico è di spacciarsi per contrabbandieri, porprio come Han Solo; mentre le forme dei siluri fotonici rievocano invece il muso dei caccia di Star Wars e l’anti-Enterprise “Vengeance” è nera come il planetoide artificiale al comando di Darth Veder (e Marcus è, alla stregua di Annakin Skywalker, un padre degenere). Al termine della post-produzione è arrivata ad Abrams la proposta di dirigere il prossimo capitolo della nuova trilogia di Guerre Stellari. Una sola persona (un singolo autore) si troverà così al comando delle due più famose saghe stellari dell’immaginario contemporaneo, con inaudite convergenze tra opposte space opera: l’esplorazione illuministica dello spazio pensata da Roddenberry e il misticheggiante feudalesimo spaziale modellato sul fantasy arturiano creato da George Lucas, con, ancora una volta, la necessità della fedeltà e della libertà d’interpretazione.

La regia naturalmente dinamica di Abrams, con momenti di pura esaltazione ritmica (come nell’antefatto che, come sempre in Abrams, fa partire il film in medias res), scene movimentate e uno sfondo credibile, si avvale dell’ironia nell’uso delle fonti e nell’amalgama con i privati riferimenti ad un universo personale riconoscibile per i fedeli appassionati. Il rovinoso dirottamento della “Vengeance” cancella la prigione di Alcatraz, così come l’omonima serie prodotta dalla Bad Robot era stata elisa dai palinsesti tv; Amanda Foreman, habituée delle serie del regista, fa capolino in plancia come nel primo capitolo. La concatenazione di azioni e reazioni che costruiscono le tappe della trama ha motivazioni di vendetta tipiche di Abrams perché già alla base di Mission: Impossible III e del primo Star Trek e sono tali da rendere renoirianamente comprensibili i comportamenti ostili e aggressivi dei personaggi. Nello stile poliedrico di Abrams, a suo agio nei campo-controcampo dei dialoghi come nelle scene di massa, aiutato da una stereoscopia funzionale, non invadente ma percepibile anche nelle sequenze statiche, prevale la costruzione attorno ai personaggi. Punti focali di ogni film o delle realizzazioni seriali, i personaggi sono il cardine realistico di qualsiasi divagazione narrativa, che diventa, automaticamente, plausibile e credibile per il suo saldo radicamento in psicologie condivisibili; inoltre la prevalenza del personaggio e delle sue dinamiche rimanda ad un fondamentale umanesimo che non si discosta troppo dall’utopia kennediana, pacifista e progressista, di Gene Roddenberry in cui l’esplorazione dell’universo e dei suoi limiti si colorava di ottimismo nella certezza di un futuro migliore.

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