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The Canyons

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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La recensione su The Canyons

di ed wood
9 stelle

Riguardo a quest’ultima opera di Paul Schrader, la critica ha argomentato di “fine del cinema”, “fine delle storie” e altri concetti secondo i quali questo film dovrebbe rientrare in quella cerchia di opere contemporanee che, fra cinica disillusione e residui di coscienza critica, porterebbero il post-moderno alle estreme conseguenze (ossia al post-cinema). Probabilmente i titoli di testa e gli intermezzi con le sale vuote e i boulevard hollywoodiani ridotti ad “archeologia urbana” devono aver tratto in inganno più di uno spettatore. E certamente il titolo del film presta il fianco a questo tipo di metafora: le colline, le strade, le ville, gli appartamenti, i luoghi di produzione, i locali, i bar di Hollywood si presentano come moderni e cementificati “canyon”, erosi nel tempo dalla furia di un fiume in piena, capace di scavare solchi più profondi di quelli del Colorado. Questo fiume ovviamente è l’Uomo corrotto, egoista, fasullo e solo, plasmato dalle false promesse della Fabbrica dei Sogni. In varie forme e con vari esiti, ci erano arrivati già altri, nel corso della Storia: dal Sunset Boulevard wilderiano (apoteosi black-melo-noir-comedy datata 1950) al Mulholland Drive lynchiano (fake-soap onirica e cerebrale che ha aperto alla grande il nuovo millennio), la topografia losangelina e il suo latente immaginario sono state causticamente svuotate del loro fascino al fine di rivelarne l’orrido vuoto su cui si fondano. Il film di Schrader però mi pare che vada in tutt’altra direzione. Forse sembrerà una lettura un po’ azzardata ed esageratamente ottimistica, ma io credo che “The Canyons” sia un fiducioso inno al cinema e al suo potere di coinvolgere, appassionare, intrattenere, far riflettere. Anche a fronte di sale abbandonate...Altro che “fine del cinema”, “fine delle storie”! Le sale, i viali, le ville saranno anche spaventosamente vuote come il Grand Canyon, ma la missione di chi fa cinema è quella di riempirle! Di storie, di sentimenti, di umanità, di idee, di fantasia. E’ questo dunque, a mio parere, il senso di quei titoli di testa: non un decadente abbandono ad un’idea assunta per partito preso (la morte del cinema, specie del cinema come veicolo di emozioni), ma una provocazione a cui rispondere coi fatti, nelle due ore di film che seguono; o una tabula rasa da cui far germogliare una rigogliosa pianta. E se la pianta ha il tronco e le ramificazioni solide di uno splendido script di Ellis, le foglie di una regia modernamente classica come quella di Schrader e un fiore come la Lohan (sexy e intensissima, indubbiamente la migliore di un cast per il resto appena sufficiente), direi che i frutti non possono che essere succosi e saporiti. “The canyons” è quindi la risposta a un certo cinismo oggi imperante: ma ciò non significa che sia un’opera riconciliante nel messaggio e reazionaria nello stile. Il film tiene incollati allo schermo per 100 minuti in cui si dipana un intrigante intarsio di storie d’amore e di gelosia, presenti e passate: è un melodramma (il sentimento del presente) intersecato al noir (il sentimento del passato), con cadenze da thriller erotico (rivelazioni, pedinamenti, coltellate), senza un protagonista unico. Ogni personaggio è legato all’altro da un rapporto di lavoro/amicizia o di amore/sesso (di oggi o di ieri); ognuno ha le sue ragioni e i suoi torti. Anche se Chris pare il cattivo e Ryan il buono, le cose sono molto più complesse e sfumate. La modalità di relazione si basano sul controllo dell’altro, che nell’era dell’hi-tech risulta ancora più ossessivo grazie ai social network, agli i-phone, alla tecnologia satellitare, senza contare il ricorso ad hacker prezzolati. Nessuno è immune da questo tipo di malattia: tanto più oggi, in cui non serve più un detective privato per monitorare spostamenti e incontri della persona “amata”. La mania del controllo è diventata edemica, collettiva. Eppure Schrader ha avuto il merito di non averci propinato la “lezioncina”, la morale facile sulle aberrazioni dell’era iper-tecnologica: la trasformazione della realtà (dei sentimenti e dei desideri) in un “network” di informazioni, che pone tutti sullo stesso piano e tutti “vigilati”, appiattendo e ribaltando le gerarchie, facendo correre al “più forte” il rischio dell’umiliazione (decisiva e simbolica la sequenza del sesso a quattro, con Tara che impone al compagno etero Chris di ricevere sesso orale da un altro uomo), negando quindi la possibilità di una figura eroica o anti-eroica che emerga dalla conformista “rete sociale”, sono tutti concetti inscritti nello sviluppo della trama e nella forma adottata. Schrader livella toni e personaggi, concede tempo e valore ad ogni dialogo, mantiene lo stesso ritmo blando ma avvincente per tutto il film: “The Canyons” è forse il film che, meglio di tanti altri che ci hanno goffamente provato, è riuscito a rappresentare in linguaggio filmico la percezione della realtà dei social network e della comunicazione esasperata. E lo ha fatto con la classe di una messinscena capace di creare forme inedite e al passo coi tempi, partendo dalle comuni basi linguistiche: campo, contro-campo, soggettiva, carrello etc…Se c’è una fine, questa non riguarda certo il cinema, ma un modo di intendere i rapporti umani. Forse con questo film, nasce l’archetipo di un nuovo classicismo, di una nuova stagione di generi (e di storie) che resta puro “cinema” (dinamica delle immagini) a fronte dei mutamenti culturali.   

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