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The Wolf of Wall Street

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su The Wolf of Wall Street

di scapigliato
8 stelle

Se il grande potere del cinema è quello di rappresentare la realtà e poi di definirla utilizzando figurazioni e miti condivisi, allora ne deriva la grande responsabilità del contenuto, ma soprattutto della forma, che è poi il contenuto. Grandi poteri, grandi responsabilità. Ormai questa è una linea politica del mondo cinematografico che ben sintetizza la cultura e l’orizzonte etico del nuovo millennio, quello della liquidità baumaniana, della online-generation, dei teen idol e del teen power; il milennio in cui essere troia è un valore; il millennio in cui la ricchezza risolve ogni problema; ma è anche il millennio della voce estesa della rete, delle democrazie dal basso, dell’abbattimento dei muri culturali, dell’informazione accessibile. Anche se tutto questo, ovviamente, non è detto che sia poi così reale. E se tutte queste qualità del mondo globale e digitale fossero solo delle droghe per anestetizzare l’essere umano? E qui ci ricolleghiamo a Scorsese e al suo lupo di Wall Street.

Innanzitutto la forma è il contenuto. Scorserse, come nei suoi film migliori, ha preferito l’estetica moderna a quella classica. Se Eastwood nel suo classicismo umanista mette il personaggio, quindi l’uomo, al centro del racconto e nella sua pulizia formale rincorre i principi dell’umanesimo da un lato e della chiarezza narrativa dall’altro, Scorsese amalgama il suo personaggio al linguaggio cinematografico adottato. Così, tra moderno e postmoderno, senza destrutturare come Tarantino, Martin Scorsese trasferisce ai suoi personaggi la stessa cifra artistica del montaggio, della ripresa e dell’inquadratura. I mezzi di cui si avvale il regista per confezionare il suo film sono la cassa di risonanza dei suoi personaggi, in particolare del suo protagonista interpretato con trascinante impeto da Leonardo DiCaprio – sempre più simile a Jack Nicholson.

Non c’è quindi più differenza tra filmico e profilmico, tutto è frullato insieme. DiCaprio/Jordan Belfort è il montaggio, è l’inquadratura, è il taglio, è lo scenario e la colonna sonora. Meglio non si poteva fare per portare sul grande schermo la vita discussa e discutibile dell’arbitraggista più famoso dopo Gordon Gekko. Questa accelerazione senza limiti tra sesso impazzitto, droghe di ogni tipo, speculazioni al limite della decenza, ipertrofia materialista e azzeramento di ogni possibile sussulto etico viene resa da Scorsese così come deve essere resa. Il regista gioca di accumulo e vince. Il montaggio rapido e adrenalinico, il ritmo serrato, la messa in scena che a tratti tocca la slapstick comedy e soprattutto l’accumulo forsennato all’esagerazione e all’esasperazione nonostante sia tutto vero essendo il film tratto dalla biografia dello stesso Jordan Belfort, tutto questo è la traduzione in immagini del grosso cancro della modernità: il denaro.

Chissà se a qualcuno verrà in mente di considerare l’ambiguo finale in cui l’agente dell’FBI, tornando a casa in metro seduto accanto a una fauna umana mediocre e povera, getta un occhio triste su queste persone vere e reali senza abbozzare un sorriso di orgogliosa dignità, come un finale che quasi getta la spugna su un’intera generazione che crede nel disvalore della prostituzione e dell’accumulo di richezza come antidoti alla vacuità di una vita che ormai sembrerebbe aver esaurito ogni fascino.

Non è moralista Scorsese e infatti non si permette di prendere posizioni. Ma il giudizio etico è lì davanti agli occhi del pubblico. È quella frenesia alcolica, alchemica, spermatica senza soluzione di continuità a dare le misure del vuoto e della perdita di un’innocenza che se prima toccava solo il Grande Paese post-Kennedy, ora abbraccia tutto il mondo globale.

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