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The Wolf of Wall Street

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su The Wolf of Wall Street

di EightAndHalf
8 stelle

Un classico del cinema negli anni Dieci del nostro tormentato Nuovo Millennio? Possiamo dirlo già ora? La banalità del capolavoro. No, non è The Wolf of Wall Street ad essere banale, nella sua densità narrativa che in tre ore destabilizza lo spettatore ancora di più di quanto quest'ultimo si immagini: sono le eventuali premesse, tipicamente scorsesiane, ad essere già viste, o quantomeno già ascoltate, lette, conosciute. Un frammento di biografia, un'ascesa e una discesa, un mondo descritto nei suoi particolari più interessanti spettacolari e funzionali alla storia, un'analisi anti-moralistica nei meandri di un certo tipo di Male, che sempre di meno a dirla tutta (rispetto all'inarrivabile Casinò) risulta "dignitoso" nella sua bassezza, la presenza stessa di Leonardo DiCaprio, sono tutte caratteristiche e peculiarità a cui Scorsese ci ha già abituato, ed è evidente che con questa sua nuova pellicola non ci siamo ancora stufati. D'altronde il ritmo sostenuto dell'intero film, che narra le gesta simil-eroiche ma truffaldine di un piccolo semi-dio della finanza, non può non catturare l'attenzione dall'inizio alla fine senza tediare neanche un attimo, per la straordinaria fluidità estetica di tutta l'opera e alla fine per la semplicità narrativa con cui Scorsese riesce a inserire una storia effettivamente non semplice in un tessuto lungo e lungimirante come un filmone di tre ore. E' il protagonista stesso, in una voce fuori campo che da tempo non era così armonica rispetto a un film, a dire che "noi non riusciamo a seguirlo quando parla, perché le cose non le capiamo o non ci interessano", perché l'intento di Scorsese è di parlare al mondo nella straordinaria simbiosi di due carismi già conosciuti ma di cui non siamo mai sazii, quello della sua stessa regia e quello della recitazione professionale ma anche fuori dagli schemi di un Leonardo DiCaprio senza precedenti (come si fa a non pensare all'intero suo percorso attoriale quando si ritrova nel film con la moglie sul suo piccolo yacht che sta per affondare? Non si avverte un'esilarante pulce nell'orecchio?), capace di reggere agli scarti immediati di tono che, ancora una volta, Scorsese applica riuscendo, ancora, tuttavia, a stupire.
Il male, o ancora meglio la malattia sociale e umana insanabile che questa volta Scorsese scandaglia, né con sguardo moralistico né giustizialistico, è quella della finanza e degli intrighi economicistici che in tutta la loro assurdità percorrono nella loro straordinaria astrattezza il filo inafferrabile dei sogni, non quelli più nobili e puri com'era il Cinema nel discreto Hugo Cabret, ma quelli più brutalmente attraenti e meno saggiamente consigliabili, la ricchezza (con l'ostentazione di essa) e l'accumulo, ottenibili tramite una vita che non è vita perché è alternarsi distratto e scardinato di effetti allucinatori, conferiti da droghe sempre più pesanti e che possano tenere alto il ritmo di un lavoro (e di un film, dopotutto) disumano e animalesco, da vera e propria "legge del più forte", in cui si è giunti a tale livello di organizzazione e assestamento che si è tornati all'altissima sfolgorante bassezza dell'istintualità (i vari uomini di ufficio trattano Jordan, il protagonista, come un dio che garantisce loro ricchezze così come fanno loro e il protagonista stesso, molto ipocritamente, con i clienti "al di là del telefono"; e, come in un'abitudine rituale, Jordan, su insegnamento di un vecchio magnate della finanza di Wall Street, sbatte il pugno sul petto ululando, come neanche i giocatori di rugby neozelandesi). Non è il tipico Sogno Americano, è la coerenza più becera e spietata con l'ingordigia dell'essere umano, giunto in piena società capitalistica a giochicchiare con azioni, che in realtà sono solo polvere di stelle, e che può garantire a se stesso l'illusione per eccellenza offrendo lo stesso tipo di illusione agli altri. 
Scorsese realizza un film che sta in una botte di ferro, e che difficilmente risulta attaccabile, per la grandiosa capacità di contestualizzazione, per l'estetica leccata e fulminante che penetra nel mondo geometrico e lisergico di un'alta finanza sessuomane e tossicodipendente, per l'ottima recitazione di tutti (non solo di DiCaprio, ma anche della splendida Margot Robbie e per tutti gli ottimi comprimari), per la volontà di non fermarsi di fronte a niente e a nessuno, non disdegnando numerosi nudi, l'esibizione di parolacce talmente brillante da sfiorare la naturalità, immagini fortemente ironiche che offrono uno spaccato agghiacciante e straordinario di un mondo destinato alla rovina, gioiose cadute nel grottesco e nell'umoristico, specie per l'indimenticabile sequenza del ritorno in macchina da un circolo dove il protagonista subisce l'effetto di numerose pastiglie di acido e si muove in maniera scomposta strisciando sul pavimento (rasentando la verità della sua vera condizione umana) e raggiungendo con difficoltà la macchina per tornare alla sua magione. E di seguito, il combattimento contro Jonah Hill per il possesso di un pericoloso telefono, simbolo di tutta la falsa brillantezza del cosmo rappresentato, fino alla ricarica di cocaina che risolve la situazione ripercorrendo il tracciato segnato da un cartone di Braccio di Ferro.
Perché tutto ciò che Jordan Belfort fa, per guadagnare e infine per sopravvivere, passa attraverso l'eccesso, l'eccitazione forzata e, ultima ma non ultima, l'autodistruzione. E il film, che guarda con i suoi occhi tutto ciò che rappresenta, segue le stesse modalità: ralenti, carrellate spasmodiche e movimenti di camera che non possono non ricordare gli sguardi mesti ma vivaci sugli uffici del finale di Fuori orario, per una confezione cinematografica che da Scorsese ci si poteva aspettare ma che dimostra, ancora una volta, che i veri grandi film non devono necessariamente trattare trame originali, ma devono ritrattare trame risapute in una maniera ambigua, innovativa, dinamica e che sappia rischiare. Proprio qui Scorsese, è vero, non rischia niente, adagiandosi sugli allori delle sue immense capacità, ma questo perché il mondo continua a offrirgli tanti mali senza i quali, viene il timore a dirlo, non ci sarebbero simili capolavori. Ben venga dunque una nuova gelida analisi su cosa l'uomo, nella sua limitatezza, è capace di fare, agli altri e a se stesso. Ben venga, dunque, il CINEMA.

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