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Oh Boy - Un caffè a Berlino

Regia di Jan Ole Gerster vedi scheda film

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La recensione su Oh Boy - Un caffè a Berlino

di Peppe Comune
7 stelle

Nico Fisher (Tom Schilling) è un ragazzo berlinese che prende la vita così come viene. È spesso in compagnia dell’amico Matze (Marc Hosemann), un aspirante attore che al momento è riuscito a lavorare solo nella pubblicità. Mentre è occupato a pensare cosa ne sarà del suo futuro, Nico vive una giornata alquanto movimentata : la ragazza (Katharina Schüttler) lo molla perché è ormai stanca della sua sfacciata indolenza, mentre il padre (Ulrich Noethen) gli taglia i viveri perché ha scoperto che è da due anni che i suoi studi di diritto non vanno avanti. Poi fa incontri strani : con uno psicologo (Andreas Schörders) che no vuole restituirgli la patente di guida, con un aspirante suicida suo vicino di casa (Justus von Dohnànyi), con un gruppo di teppisti che promettono di fargliela pagare, con un anziano signore (Michael Gwisdek) che gli racconta della sua infanzia sotto il nazismo e con Julika (Friederike Kempter), una vecchia compagna di classe che si diletta a fare tetro sperimentale, un ex “cicciona” dimagrita a colpi di scompensi emotivi evidenti. Infine, sembra che in tutta la città sia impossibile prendere un caffècome si deve.

 

Tom Schilling

Oh Boy - Un caffè a Berlino (2012): Tom Schilling

 

 

“Oh boy – Un caffè a Berlino” del regista esordiente Jan Ole Gerster è un film dall’andamento narrativo fintamente approssimativo, che sembra non condurre da nessuna parte, fatto di incontri e situazioni portati spesso fino all’orlo del paradosso, ma che poi è capace di far emergere una profondità di contenuti facendo esclusivamente leva sull’esistenza ondivaga di Nico, emblema designato di una generazione intera appassita dal disincanto. Mi preme subito evidenziare che, l’apparente evanescenza che caratterizza il film, la leggerezza eterea che accompagna il girovagare cittadino del ragazzo, sono aspetti che hanno generato in me  delle assonanze con il cinema di Otar Ioselliani (e con un suo film in particolare, “C’era una volta un merlo canterino”). Certo, il film manca di quel surrealismo filosofico e di quella levità stilistica che sa farsi aperta denuncia sociale che sono tratti tipici della poetica del cineasta georgiano, ma in comune con essa ha quella coralità di situazioni che formano un corpo unico anche se sembrano slegate l’una dall’altra, quel contenere tanto anche se a caratterizzare la narrazione sembra esserci il nulla. Sono giusto degli input estemporanei, che autori seminali per la mia crescita cinematografica come Otar Ioselliani hanno evidentemente lasciato in me in maniera indelebile.

“Ho un milione di cose da fare” dice Nico alla sua ragazza dopo aver fatto l’amore, non trovando niente di meglio che questa “classica” frase di circostanza per venir meno ad un impegno con lei. Salvo poi non trovarne nemmeno una da potergli offrire come scusa plausibile, perché, cosa debba fare di preciso, dove, quando e con chi, neanche lui stesso lo saprebbe spiegare bene. Comincia così questo godibilissimo film tedesco, con già tutti gli ingredienti caratteriali del ragazzo a portata di mano : il piacere senza coinvolgimento, l’indecisione come regola di vita e i sentimenti in stato di sfratto. Poi ci pensa la macchina da presa, che segue con precisione certosina il girovagare anarchico di Nico, il suo muoversi senza una meta, il suo dare l’impressione di fare tante cose senza concludere mai niente di preciso (proprio come Ghia, il “merlo canterino” di Ioselliani). La sua personalità ancora incompiuta e il suo rapporto simbiotico con la città di Berlino sono aspetti essenziali del film, che ci vengono restituiti attraverso delle precise scelte stilistiche. Innanzitutto, un bianco e nero plumbeo (anche un po’ furbo magari, per dargli subito il crisma “alternativo” da cinema indipendente) che serve a proiettarci dentro l’indeterminatezza esistenziale di Nico, impegnato a rendere almeno interessante il monotono reiterarsi del giorno per giorno. Poi la colonna sonora (bella) virata in Jazz, classica e moderna insieme, che si adatta agli esterni berlinesi con sobria eleganza, in maniera incisiva ma mai invasiva. Aspetti linguistici questi che danno forma e sostanza alla delineazione caratteriale di un ragazzo tipo di una grande metropoli come Berlino, una città viva che non fa da sfondo passivo agli incontri occasionali del ragazzo, ma che interagisce continuamente con lui. La città sembra parlargli, lanciargli dei segni, metterlo a stretto contatto con gli echi inascoltati di esperienze storiche epocali, come per ridestarlo dal torpore che lo immobilizza, dalla passività indolente con cui osserva scorrere il tempo (“Cosa hai fatto negli ultimi due anni mentre ti mandavo i soldo per studiare ?”, gli chiede il padre. “Ho pensato”, gli risponde Nico). Da ciò però non ne deriva il ritratto di un individuo dissoluto e insensibile, quanto quello di un ragazzo che con molta calma cerca di trovare il suo posto nel mondo. Anche se in maniera inconsapevole, Nico cerca di affrancarsi da quell’indifferenziazione valoriale prodotta dal modello culturale dominante, che gli impedisce di attribuire il senso adeguato alle cose che lo circondano, di fare il giusto discernimento tra la vita e la morte, i sentimenti duratori e la passione fugace, il tempo delle responsabilità e i momenti del cazzeggio. Il suo è un vuoto pneumatico comune a molti suoi coetanei, figli di un tempo storico che ha azzerato le consuete coordinate spazio temporali per catapultare tutti in una sorta di eterno presente, sospeso tra un passato che non si sa più riconoscere e un futuro che non si è in grado di pensare. Un pregio di Jan Ole Gerster è stato, a mio avviso, quello di far aderire la regia al carattere di Nico Fisher, nel senso che si toccano problemi seri ma senza prendersi troppo sul serio, conservando fino in fondo un tono leggero, un’aria tragicomica direi, intrecciando personaggi assurdi e situazioni paradossali con l’incedere disordinato del ragazzo il quale, inizia la sua personale crisi d’identità quando le sicurezze di sempre cadono una alla volta sotto i colpi della sua improduttiva esistenza. Sembra il centro gravitazionale di tutta la città di Berlino, che a sua volta si fa specchio fedele delle insicurezze di un intero paese, di quelle individuali, che prendono la forma sistemica di nevrosi metropolitane che hanno il potere di incattivire le persone, e di quelle collettive, diretta promanazione di una storia drammatica che arreca ancora dolore in chi ne conserva la memoria (emblematica in tal senso è tutta la parte finale del film). Una resa dei conti inevitabile, insomma, che lo coglie di sorpresa ma non lo trova impreparato. Perché la discesa si rivela essere anche una ascesa per Nico, che in una giornata qualunque, caratterizzata dall’incontro casuale con diverse persone "strane", ha imparato a dare un peso al senso delle parole, all’ascolto dei ricordi e al valore della memoria. E anche che una città dove non è possibile prendere un buon caffè rende tutti più nervosi.

Un buon film che mi si è rivelato come una piacevolissima sorpresa e di cui ringrazio Rolando (hupp2000) per la curiosità che ha saputo suscitarmi attraverso la sua puntuale recensione.                 

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