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Nymphomaniac

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Nymphomaniac

di EightAndHalf
9 stelle

Questa è la versione censurata della recensione sul film “Nymphomaniac”. EightAndHalf ha autorizzato simile operazione, e ha pure partecipato alla realizzazione. (Della serie: von Trier è [auto]ironico, lo saremo anche noi).

 

Questa sarà una recensione molto lunga, così com’è lungo Nymph()maniac. E così come Nymph()maniac potrebbe essere straordinariamente piena o straordinariamente vuota. D’altronde, è tutta una questione di “riempire i buchi”.

 

 

È inutile, si fa fatica a convincersi che Lars von Trier abbia deciso di non partecipare alla versione censurata e per la sala del suo ultimo, grande film. Ed è anche altrettanto poco convincente l’idea che non sia stata opera sua la divisione in due volumi (tanto sono diversi l’uno dall’altro). Non stupirebbe se fosse davvero un’operazione commerciale prevista dallo stesso von Trier. E ancora una volta, non sarebbe per un semplice scopo remunerativo. O forse sì, ma lo sarebbe alla luce di un’estrema coerenza finzionale con l’opera stessa, con lo stesso Nymph()maniac. Già da una semplice (!) campagna pubblicitaria, von Trier ha indicato le linee guida di queste sue quattro/cinque ore. Un’infinita menzogna.

 

 

Luciano di Samosata avvertiva all’inizio della sua Storia vera che non bisognava credere a una sola parola di quello che avrebbe detto, e che la sua opera sarebbe stata un semplice divertissement. La mitica doppia parentesi del titolo del film di von Trier sembra essere un avvertimento molto simile, lanciato fin da subito nella campagna pubblicitaria a “sfondare” un titolo che appare, nella sua estensione, la metafora stessa del corpo di Joe, con un buco in mezzo, con un vuoto in mezzo. La mitica () del titolo Nymph()maniac è la nuova vagina post-moderna, ed in questo senso è e rimarrà sempre il vuoto della nostra vita. Così com’è il vuoto esistenziale (meta)fisico delle donne dei film di von Trier, così com’è il vuoto di von Trier stesso (una nuova invidia della vulva, tanto per rifondare la psicanalisi), così com’è il vuoto dell’esistenza, dell’arte, del Cinema. Vuoti, spazi bianchi, come nelle poesie avanguardiste, ungarettiane e a seguire, pause enfatiche, momenti di silenzio, ad avvertire il silenzio che rimbomba nelle nostre orecchie e nelle nostre anime. Le lacerazioni profonde che percorrono addirittura il nostro pensiero, e che rendono Nymph()maniac, fin dalla sua grafica “orgasmica”, con i volti degli attori contratti nel momento dell’amplesso, il film più nichilista mai realizzato da Lars von Trier. L’ultima, elettrizzante, sega mentale, o, per evitare francesismi, una mastodontica opera cerebrale, l’ultimo definitivo pensiero umano, e quello che resta.

 

 

Ci sarebbe così tanto da dire, che non si sa nemmeno da dove cominciare. Ebbene, è come raccontare la propria vita, Nymph()maniac. Vedere questo film è vivere la pratica stessa dello svuotamento del significato profondo dell’esistenza nel momento in cui non la si vive più e si comincia a riguardarla, raccontarla. Perché l’Arte corrompe la Vita, e questo von Trier ce lo dice da tempo. Qui la sua eco rimbomba in maniera più forte e potente. Cos’è rimasto del valore della vita umana, quello alla fine celebrato da Seligman, nell’esistenza del presente? E nemmeno del presente, ché Nymph()maniac rifugge coordinate temporali, ma nell’esistenza in genere? Nymph()maniac potrebbe essere considerato una ricerca che già sa che non porterà a nulla, e dunque decide di sfatare qualsiasi mito e qualsiasi certezza. Operazione non nuova, alla luce di tutta l’arte novecentesca, se non fosse che è un’operazione che si riflette su se stessa e comincia a roteare infliggendosi piaghe disgustose e sanguinolente. Un corpo filmico che mira all’autodistruzione, sfuggendo a qualsiasi caratterizzazione, benché si rinchiuda, per esigenze filosofico-contenutistiche, in una struttura in capitoli, come se il carattere sfuggente di una vita umana volesse farsi incanalare e penetrare da volontà razionalizzanti. Ed è in questo caso Seligman la voce della forzatura, della morale, della ragione. Ma forse si corre un po’ troppo così, anche questa puntualizzazione rischia di sbrodolare e di mancare il bersaglio, perché c’è tanto da dire su Nymph()maniac come c’è tanto da dire sulla Vita (raccontata). Allora forse dividersi in capitoli non è una scelta malvagia, è un costringersi a far capire agli altri ciò che si vuole dire, una categorizzazione che permette di comunicare, benché falsifichi il caos e la non-direzione di ciò che si è vissuto e di ciò che si vuole raccontare. Così ecco la scelta di Joe, donna ritrovata in un vicolo da un anziano Seligman pronto ad ascoltarla, la scelta di dividere la sua storia e di schematizzarla, per provare a tracciare, per una volta in questa nostra triste epoca, in questa nostra triste esistenza, una linea che frantumi l’innata incomunicabilità. Tentativo fallito in partenza, perché Joe e Seligman non sembrano vicini neanche per un secondo, e la loro vicinanza genererà l’ultimo inevitabile corto circuito.

 

 

Si è detto prima che la divisione in volumi non sembra essere una casuale scelta commerciale (pur, indubbiamente, essendola). Forse proprio perché quel primo volume che termina con il non sento niente getta una luce più profonda sull’intero film come sull’intera esistenza di Joe, e dunque illumina un secondo volume davvero diverso, serio, silenzioso. Come se mirasse a rivelare il grandissimo vuoto che stava alla base proprio del primo volume. Il secondo risulta esplicativo del primo, che elabora un obbiettivo davvero diverso, davvero antipodico. O meglio, è come se l’intero Nymph()maniac, diviso in questo modo, fosse un enorme diagramma di Eulero-Venn, un secondo volume più completo e complesso che contiene il primo con tutta la sua effervescenza e la sua giocosità. Perché il primo volume è nettamente più vivace e brillante del secondo. Perché il primo dà una definizione di vita che nel secondo viene mostrata, messa davanti allo spettatore e lentamente, secondo un altro percorso ancora, frantumata, verso la rivelazione del nulla più assoluto. Cosa succede dunque nel primo volume?

 

 

Entriamo a contatto con la vita di Joe, i suoi umori giovanili, la sua sensazione, la sua ninfomania tanto discussa e commentata dai critici come evento che von Trier scandaglierebbe da un punto di vista psicologico. Ecco, è probabile che anche questo aspetto venga preso di mira da von Trier, anche alla luce del fatto che a morire, esibendosi, in Nymph()maniac, è l’atto stesso del raccontare e dunque del riproporre un vissuto. La psicanalisi mirerebbe a spiegare la ninfomania di Joe attraverso il deficit di accudimento da parte della madre e la vicinanza pregnante con il padre (da vedere e rivedere l’episodio in bianco e nero, con la sequenza ormai di culto della disgustosa pulizia delle feci del padre Slater). Ma, per rimanere sulla linea dei paragoni che elabora Seligman per tutta la durata del film, l’interpretazione psicanalitica sulla vita di Joe ha la stessa rilevanza che poteva avere l’interpretazione psicanalitica di Zeno nella sua sveviana Coscienza, una cosa che sembra più letteraria e  artistica che scientifica. È un po’ la storia che si ripete da sempre, la vita non riesce ad essere incanalata da interpretazioni razionali (non è un caso che Freud, nel film, sia proprio Seligman a citarlo). Eppure, è proprio da passaggi razionali come la divisione in capitoli che la vita di Joe viene raccontata. Dunque perché non ridurre tutto anche alla psicologia? Ebbene, von Trier, parlando di come si racconta una storia rivela che la storia di Joe non avrà mai la realtà che avrebbe potuto avere la vita di Joe nel momento in cui è stata vissuta. Quella vita è sfuggita, è ormai lontana, probabilmente non è mai esistita davvero, sta nelle parole di Joe in quella stanza così piena di simboli e nel frattempo così vuota e spoglia, come la vita stessa. La vita che vedremo/ascolteremo, è una vita raccontata, e dunque finta. È il Cinema stesso qui che interviene in tutta la sua forza e in tutta la sua ostentata finzione. Magari il cinema stesso di von Trier, magari il cinema degli esordi, o meglio del Dogma. La vita di Joe  è dunque raccontata, all’inizio, con macchina a mano, inquadrature turbolente, movimenti svelti e scattanti. Poi andrà trasformandosi. Nell’episodio in cui si parla del padre, l’immagine è in bianco e nero, e tutto ha assunto colori più tenui, seppure rappresenti sempre della sporcizia più o meno nobilitata, quella delle feci del padre. Allo stesso modo, il movimento “dogmatico” del cinema di von Trier è “costretto”, come la vita stessa, in tre riquadri, nel bellissimo episodio sulla sinfonia di Bach, in cui a creare una sinfonia è proprio la rielaborazione cronologica della vita di Joe. Tre episodi raccolti dalla memoria e messi insieme. Un’operazione fattibile solo in un secondo momento, in una seconda sede, in cui la vita non è più Vita ma diventa materia di studio, di discussione. È lì, dunque, che Joe, comincia a non sentire niente. Ma forse niente si sarebbe dovuto sentire. Che la vita fino a questo punto raccontata esista solo nel momento in cui la si racconti? Che quella vita non sia mai esistita di per sé, e viva solo nelle nostre rielaborazioni mentali? Che sia la stessa realtà ad essere finzione?

 

 

L’amore per Jerome, il suo vero amore, è anche la perdita della sensibilità sessuale. Da allora è tutto in discesa verso un nuovo tentativo di scoprirsi, di rivelarsi, tramite la violenza, il sadomasochismo, strumenti atti a un’autodistruzione corporale, così come è la stessa arte di von Trier (e il Cinema) ad andare verso l’autodistruzione. Mentre il racconto continua a permearsi di simboli e di metafore, che nel loro presentarsi sembrano rappresentare il vero motore della vita (filtrata dal racconto) di Joe, dietro a tutto quanto c’è il Nulla. Perché Nymph()maniac è un corpo pluristratificato, ripetitivo, ridondante. È come un complesso di più piani, in cui realtà e finzione si spiaccicano l’una contro l’altra in continuazione, senza smettere. La vita di Joe è il suo racconto, è quell’insieme di metafore. Per tutto il primo volume non facciamo altro che compiacerci delle metafore che elabora Seligman, fino a quando ci rendiamo conto che è stato tutto ridicolizzato e la vita stessa, diventata “divisa in capitoli”, è una lunga serie tv (basta vedere il video riassuntivo del secondo volume alla fine del primo, un to be continued che ha l’efficacissimo effetto di svuotare la vita di Joe [e dell’uomo] di un senso ultimo per riempirla di estetica, racconto e finzione, così come, nella totale finzione, sono riempiti i buchi di Joe). La campagna pubblicitaria di Nymph()maniac ha contribuito così a rivelare il vuoto profondo che sta dietro l’esistenza dell’uomo: non una semplice stoccata moralistica, ma un’immergersi nell’immagine, nell’estetica, nel filtro finzionale del racconto, per capire che non c’è niente da raccontare fin dall’inizio, e che l’importante è il modo in cui lo si sta raccontando.

 

 

È inutile negare che il primo volume sia davvero divertente: metafore, accostamenti improbabili, quasi una superficiale joie de vivre, anzi, de raconter, che riempie e riveste il vuoto nichilistico di tutto quanto (Vita ed Arte in egual modo, perché anche le parti in cui Joe e Seligman parlano sembrano presupporre un Buio e Silenzioso Nulla).  Nel secondo volume, invece, quando si capisce che dietro non c’è nulla (non sento più niente), ed è finita la pacchia giovanile (un’umanità “giovane” che non si rassegna al vuoto e si ricrea i suoi valori, anche i più bassi, come la ninfomania), inizia il percorso della consapevolezza. È qui Nymph()maniac comincia a riflettersi su se stesso come von Trier comincia a proiettarsi nel film stesso. Ormai è il raccontare ad essere importante, non il cosa si sta raccontando. C’è sempre meno differenza estetica fra le immagini della vita di Joe e le immagini della stanza di Seligman non solo perché i due periodi cronologici si stanno avvicinando (Nymph()maniac è anzi completamente fuori dal tempo), ma perché ormai si è dimostrato che è tutto scorza narrativa, e che dietro c’è il Vuoto (la vulva del titolo) e il Silenzio (come l’anatra). Tutto si proietta verso il presagio funesto: ci sarà davvero una morale alla fine? O meglio, riuscirà a trovarla Seligman?

 

 

Intanto il materiale narrativo va esaurendosi, così come si esauriscono i simboli della stanza di Seligman. È evidente che quei simboli sono la vita di Joe, e non si limitano a rappresentarla. Comunque, mentre la storia di Joe rivela il suo carattere finzionale, divenendo un puzzle dei film precedenti di von Trier (autocitazioni funzionali a dimostrare come è lo stesso cinema vontrieriano a procedere verso l’autodistruzione), e dunque mettendo di seguito suggestioni alla Antichrist, alla Onde del detino e alla Grande capo (e mettendosi in gioco così tanto, potremmo dire anche alla Cinque variazioni, per non parlare di Dogville), tutta la vita di Joe corre verso il finale, un finale svelto, che sfata un mito che von Trier in quattro/cinque ore aveva creato, quello di un’estetica che era in grado, ancora, di ricoprire il nulla, rivelando però di essere, in realtà, tanto sottile da incenerirsi, sottile quanto una pellicola. E nell’ultima sequenza, in cui trionfa il buio, e tutte le divisioni fra ragione e istinto tentano di negarsi unendosi (un vero e proprio corto circuito filmico, il possibile rapporto sessuale finale), la telecamera si spegne, il racconto finisce e sentiamo i suoni che tentano di penetrare il buio del Nulla. Per capire che alla fine quel Buio c’è sempre stato, e che aveva poco senso quell’apparente riavvicinarsi alla vita finale (certe sequenze con il personaggio della ragazza con l’orecchio deforme sembrano prese da La vie d’Adèle, che invece è Valore Vitale all’ennesima potenza: curioso paragone antipodico) e aveva poco senso quel tentare di dare un senso addirittura alla propria autodistruzione, quando in quella stessa ragazza Joe prova a ricreare un suo doppio (la penetrazione alla Fibonacci che si ripete, dopo che il suo passato e la sua stessa vita [Jerome] l’hanno picchiata selvaggiamente e lasciata nel vicolo a marcire). Così, Nymph()maniac si annulla nel suo labirinto, e si picchia selvaggiamente, aprendosi in squarci di (inutile) poesia, come tutta la tiritera sui colori del tramonto. Un odissea di quattro ore per dire cosa? Nulla, e paradossalmente si è rappresentata, fedelmente, la Vita intera. Se non fosse che il film vuole autodistruggersi, professando la Morte del Cinema, sarebbe un capolavoro. Per come è ora, Nymph()maniac non è capolavoro, ma non vuole neanche esserlo. Perché sarebbe far vincere l’Arte, quella che nel film agonizza e poi muore, così, con un tac. “Ma tu sei andata con un migliaio di uomini”. Si è punto e daccapo. Via con il Nulla, basta con le scorze.

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