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Nymphomaniac

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Nymphomaniac

di AtTheActionPark
8 stelle

 

Nymphomaniac è un corpo esteso e mutevole, incerto e contraddittorio. Un esperimento cinematografico che sembra non avere pace, destinato ad essere continuamente martoriato e maltrattato dal suo autore – come in fondo è la protagonista stessa del film. Prima annunciato in due versioni, una hard e una soft; poi l'incertezza del cut finale; le diverse versioni distribuite ai Festival; le censure; una campagna pubblicitaria furba e affascinante. L'ultima opera di Lars von Trier si presenta, infine, allo spettatore in tutta la sua consapevole parzialità: ché quello che vediamo sullo schermo è solo una delle possibili varianti di un'angosciosa, grottesca, ironica, beffarda e nichilista Odissea individuale attraverso la spersonalizzazione del corpo, degli affetti e del cinema.

 

Ciò che colpisce, fin dalla prima visione, è come elementi e umori eterogenei convivano – non in necessaria armonia - nello stesso film. Siamo infatti lontani dalla cupezza totalizzante di Melancholia e di Antichrist: Nymphomaniac, soprattutto per quanto riguarda il primo Volume, segna il passaggio di Trier ad un registro differente, marcatamente postmodernista (non più, quindi, solo una mera coscienza di venire dopo). Spesso, il film e il suo autore “giocano” greenawayanamente con lo schermo e con l'immagine, ironizzano temi e situazioni - seppur mantenendo costante uno specifico controllo del set e delle luci, finalizzati a creare un'atmosfera chiusa e claustrofobica (vedi l'ottimo lavoro compiuto in tutta la sequenza sul treno). Spesso la soundtrack ha un valore tutt'altro che immersivo – si è parlato addirittura di uso “brechtiano”. Senza giungere ad una terminologia così forte, è innegabile che il film di Trier, più di ogni altra sua opera precedente, evidenzi con violenza la propria natura finzionale.

 

In Nymphomaniac Joe (Charlotte Gainsbourg) e Seligman (Stellan Skarsgard) parlano, e parlano, e parlano. Come in Pornocrazia l'indagine sessuale dell'Altro è compiuta, in maniera fallace, per mezzo della parola. Non più – o non solo - attraverso un conflitto tra Lui e Lei, ma per via di una narrazione dai caratteri fluviali, spontanea e desiderata: Joe, per le quattro ore del film, racconta a Seligman la propria vita, entro le quattro mura di una spoglia e austera stanza. La forma del racconto, suddiviso come d'usanza per Trier in capitoli, assume così la forma del diario personale, che si concretizza in immagine nella mente del destinatario, Seligman: l'uomo puro, vergine, dotto. Trier sbandiera senza tanti problemi l'ingombrante simbologia (anche metacinematografica) incarnata dai due protagonisti. La donna, ancora una volta, è l'elemento istintivo e passionale: essenzialmente dionisiaco; l'uomo è il corrispondente razionale e matematico: ovvero, apollineo.

 

Ma il regista danese non si ferma qui. Il suo intento di fondo, in Nymphomaniac, è attestare l'assoluta ipocrisia che costituisce e regge i princìpi stessi delle relazioni umane. Poco alla volta, infatti, la prospettiva viene ribaltata, e la razionalità di Seligman si rivela in tutta la propria limitatezza, per poi sfociare in un inaspettato e pessimistico finale. Joe, che inizialmente desiderava essere moralizzata e punita, si dimostra ben più attenta del suo interlocutore a non elargire giudizi, a non cadere nei tranelli della parola e della morale. Martoria sì il proprio corpo diventando quasi fisicamente insensibile (quell'agghiacciante «non sento nulla» che chiude il primo Volume), eppure Joe sembra la sola in Nymphomaniac che, attraverso un percorso di (s)formazione dai tratti vagamente cristologici, cerchi una via di fuga dal circolo vizioso della prigione-corpo-desiderio. Il film di Trier, pur nella sua natura apparentemente sadiana, se ne allontana poco alla volta: la mercificazione che Joe fa del proprio corpo diviene, piuttosto, una reazione violenta, isterica ed estrema. E sempre più odiata.

 

L'ultimo film di Trier si inserisce così, problematicamente, nell'attuale contesto di film che si interrogano sulla dipendenza del desiderio del corpo - basti pensare a Shame di Steve McQueen, oppure a Giovane e bella di François Ozon -, in maniera decisamente bizzarra e discontinua. Se il debito principale, più che Tarkovskij – nonostante l'ormai classica scena della levitazione -, potrebbe essere nei confronti di Bergman (Scene da un matrimonio), spesso l'impressione è di aver a che fare con una lettura, europeista ed essenzialmente opposta, del Love Exposure di Sion Sono. Un film in cui ogni prospettiva liberatoria (l'amore? la sua idea, nel film, non si vede nemmeno col lanternino!) è brutalmente falciata alla radice. Resta così, alla fine, lo schermo nero, uno sparo, delle urla: ora finalmente “vediamo” cosa, inizialmente, c'era stato negato. Eppure, nulla è cambiato.

 

 

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