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Il pranzo di Babette

Regia di Gabriel Axel vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il pranzo di Babette

di sasso67
10 stelle

La Sapienza si è costruita la casa,/ ha intagliato le sue sette colonne./ Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino/ e ha imbandito la tavola./ [...] A chi è privo di senno essa dice: / «Venite, mangiate il mio pane, / bevete il vino che io ho preparato. / Abbandonate la stoltezza e vivrete,/ andate diritti per la via dell'intelligenza» (Proverbi, 1-6)

Una donna perfetta chi potrà trovarla?/ Ben superiore alle perle è il suo valore./ Ella è simile alle navi di un mercante,/ fa venire da lontano le provviste./ Si cinge con energia i fianchi/ e spiega la forza delle sue braccia./ Apre le sue mani al misero,/ stende la mano al povero./ Apre la bocca con saggezza/ e sulla sua lingua c'è dottrina di bontà (Proverbi, 31,10. 14. 17. 20. 26)

Una nuova visione del Pranzo di Babette, a distanza di tanti anni, me l'ha fatto apprezzare maggiormente, anche alla luce delle riflessioni fatte dal padre gesuita Guido Bertagna nel suo saggio Il volto di Gesù nel cinema (2005). Vi sono molti elementi da considerare e da riconsiderare, per dare nuove interpretazioni di un film che è molto più di un semplice invito ad assaporare le gioie della cucina (e quindi della vita), come spesso è stato scritto, soprattutto da una critica corretta, ma che si è limitata a leggere la superficie del film di Axel, senza decifrare quanto si poteva scorgere ad un'osservazione più attenta.

Prima di tutto, il titolo. Il «pranzo» di Babette è, in realtà, una cena. E, se si va a vedere il titolo originale danese, Babettes gæstebud, si deve ancora correggere la traduzione in La «festa» di Babette. Una cena per dodici persone: questo dovrebbe mettere sull'avviso. Del resto, la religione pervade tutta la narrazione, così come condiziona la vita intera delle due sorelle Martina e Filippa, figlie del Decano, fondatore della comunità religiosa del villaggio norvegese di Berlevaag, in onore del quale si svolge la cena che sarebbe dovuta figurare nel titolo. E che la cena sia una festa ci si rende conto alla fine, quando, grazie ai cibi cucinati dalla cuoca parigina, l'armonia torna all'interno della piccola comunità religiosa, mentre fino a quel momento, dalla morte del Decano, avevano preso il sopravvento rancori e ripicche tra gli anziani membri.

Del film, tratto da un racconto di Karen Blixen, si possono dare diverse letture. Una è sicuramente quella che prevede l'invito a gustare dei piaceri dell'arte culinaria e quindi a non reprimere i sensi. Come dimostra il finale della cena, apprezzare quel ben di Dio (si può proprio dire) riconcilia con la vita e con il prossimo. Alcuni critici hanno perfino elencato le portate imbandite da Babette e il mio sospetto è che l'abbiano fatto per allungare il brodo (di tartaruga) di commenti, nei quali dovevano giustificare il giudizio positivo su un film del quale avevano scalfito soltanto la superficie.

Il racconto della Blixen è una metafora sulla vocazione dell'artista. Il film, che ammorbidisce un po' i toni più aspri del testo scritto, termina con la battuta di Babette, la quale conclude che «un'artista non è mai povera», mentre sulla pagina, più altezzosamente, la chef del Cafè Anglais tendeva a distinguersi nettamente, in quanto artista, dai comuni mortali, sostenendo che «gli artisti hanno qualcosa [...]  di cui gli altri non sanno nulla». E comunque la scrittrice danese era abbastanza esplicita nell'inserire delle chiavi di lettura apertamente desunte dalla Scrittura, come fa notare Bertagna (quando inizia la cena, la Blixen scrive che «erano seduti a mensa come si erano seduti i convitati alle nozze di Cana. E la grazia aveva scelto di manifestarsi qui, nel vino stesso...»), laddove, al contrario, Axel sceglie un tocco più indiretto e allusivo. E tuttavia, un critico come Tullio Kezich, il quale ritiene di trovarsi di fronte ad un «modello di film letterario che sollecita il confronto con la pagina», non si accorge che Il pranzo di Babette, racconto e film, è tutto gravido di rimandi al messaggio salvifico narrato nei Vangeli e, definito il film di Axel «un piccolo capolavoro di notazioni gastronomico-psicologiche scandite sui tempi esatti della preparazione culinaria, della scalcheria e del servizio di tavola», conclude giudicandolo uno spettacolo raffinato e avvincente, contenente «un monito contro le diete, un invito a una sorta di mistica della buona tavola».

E non è il solo a limitarsi alla lettura superficiale del film. Nella sostanza, non dicono cose diverse Mereghetti, Morandini, Reggiani e Grazzini, i quali, in quanto critici in forza a quotidiani, hanno la giustificazione di scrivere a botta calda, mentre la fortuna di essere spettatori consente di vedere e rivedere un film più volte nel corso degli anni e di poterci trovare sempre nuovi significati, a volte perfino in maniera soggettiva, opinabile e perfino oltre le intenzioni del regista. E tuttavia va detto che nell'orecchio di qualcuno di questi critici la pulce dell'interpretazione cristologica di Babette doveva esserci, perché, seppure non esplicitamente, pare che l'intuizione da vecchio lupo di cinema abbia fatto balenare davanti al critico quanto meno l'ombra platonica dell'idea sottesa al film. Sempre Kezich, per esempio, scrive, riferendosi alla chef parigina, che «la donna decide di immolare la vincita in un solo pranzo stupendo», utilizzando, consciamente o meno, un termine che è tipico della tradizione cristiana (o, come si usa dire oggi, giudaico-cristiana), dove l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo si sacrifica - e quindi si immola - per la salvezza dell'umanità. Nello stesso senso, Stefano Reggiani (all'epoca critico cinematografico della Stampa di Torino), che pure non si discosta di molto, nel giudizio e nell'interpretazione del film, dai suoi colleghi, non giunge ad identificare nella protagonista una figura Christi, però parla di Babette come di un «arcangelo della buona cucina con un passato rivoluzionario».

Quello che intendo dire qui non è che quella di Babette riproduca esattamente la vicenda terrena di Gesù nazzareno, ma che quella cristologica sia una chiave interpretativa credibile che il regista Gabriel Axel - e prima di lui la scrittrice Karen Blixen - ha consapevolmente voluto fornire allo spettatore - e al lettore - per una trama che potrebbe essere vista, com'è stata appunto vista, anche come una storia puramente laica di una comunità (religiosa), la quale riscopre sentimenti d'affetto grazie ad una raffinata cena, offerta generosamente da una domestica che in passato è stata la più grande chef del suo tempo. Ma i segni che tendono ad altro significato non si possono ignorare.

Dopo la morte del Decano, si diceva, la comunità religiosa da lui fondata è rimasta preda di rancori e risentimenti, acutizzati e sclerotizzati dall'età ormai avanzata degli adepti. E questa minuscola comunità, ormai ridotta ad undici soli membri (tanto che si giunge al numero di dodici perché un'anziana componente conduce con sé il nipote, il generale Löwenhielm), è a sua volta parte del microcosmo di Berlevaag, descritto come un mondo «chiuso come le piccole pitture colme di ogni dettaglio dentro il corpo delle lettere iniziali dei codici miniati» (Bertagna). Berlevaag, piccolo villaggio rinchiuso tra i fiordi norvegesi, non fa presagire che vi possa accadere niente di buono, così come di Betlemme ci si domandava, nell'antica Giudea, che cosa vi potesse provenire di buono. A questo microcosmo, Axel ci fa avvicinare progressivamente, per farci comprendere quanto esso, dominato dalla figura ieratica e inquietante del Decano, sia chiuso e impermeabile al mondo esterno. Così come l'anziano patriarca (che, ci viene detto, si era sposato in età già avanzata) rifiuta di concedere in sposa una delle figlie ad un giovanotto del luogo che l'aveva lungamente fissata durante una funzione religiosa (il giovane va dal Decano a chiedere la mano della figlia e quello, sempre usando la metafora delle mani, gliela nega), a maggior ragione saranno respinti, nei loro assalti, sia l'ufficiale dell'esercito Löwenhielm che il cantante lirico francese Achille Papin. Berlevaag sembra uno di quei soprammobili con un paesaggio racchiuso in una sfera di vetro, capovolgendo la quale vi si fa nevicare: è completamente impermeabile e refrattario a qualsiasi penetrazione esterna, anche a quella della Grazia divina.

Dopo la morte del Decano, le due figlie restano sole a governare la setta religiosa da lui fondata, ma, con l'arrivo di Babette, si ricompone il triangolo composto dal patriarca con le sue "due mani", Martina e Filippa. Babette penetra nella scorza delle due sorelle e, con buone maniere, le persuade prima ad ospitarla, poi a lasciarla andare via e quindi ad accettare l'offerta della "peccaminosa" ultima cena. Questo triangolo, però, non è più ermetico come quello costituito dalle due sorelle con il padre: con la grazia che le è propria, la cuoca francese riuscirà a far accettare a Martina e Filippa - e alla comunità da loro amministrata - l'offerta di un pasto, che sarà rivelatore del proprio ruolo, ma che nella fase di preparazione trasmette timore e inquietudine nei destinatari: «sicura che quello non è vino?» domanda Filippa, allarmata davanti alle bottiglie giunte dalla Francia; per non parlare del terrore che si dipinge sul volto di Martina alla vista della tartaruga, quasi che l'innocuo rettile, anch'esso pervenuto per sacrificarsi sull'altare del prelibato brodo, fosse un mostro marino descritto nell'Antico Testamento. Il triangolo, così ricomposto, è come rovesciato, e funge da cuneo per aprire un varco nella comunità religiosa fondata dal Decano. Tanto che, inizialmente, le due sorelle notano con sorpresa che da quando sono in tre, misteriosamente, hanno più denaro di quando erano solo in due. Naturalmente, di questo «mistero» si può dare anche una lettura meramente economica. Si può pensare che Martina e Filippa, le cui entrate dipendono probabilmente dalle offerte dei Fratelli e delle Sorelle della loro setta, siano più ricche adesso che sono in tre, rispetto a prima, perché Babette, i cui servizi sono gratuiti, sa gestire oculatamente le risorse che le sono affidate - come, del resto, si vede nella scena in cui la domestica acquista il pesce dal pescatore o in quelle in cui la vediamo fare compere di generi alimentari nel negozio del droghiere. Oppure il "fenomeno" può essere spiegato come un miracolo della Grazia divina, una sorta di moltiplicazione dei pani e dei pesci. Allo stesso modo, può essere data questa duplice interpretazione anche riguardo all'episodio raccontato da una delle anziane consorelle della Comunità religiosa, all'inizio della cena offerta da Babette, narrato, peraltro, allo scopo di distogliere il pensiero dei commensali dalle prelibatezze della cucina francese che stanno gustando. Si tratta della stessa signora che più tardi, quasi al termine della cena, schiferà un bicchiere d'acqua per rifarsi con l'ottimo vino rosso apprestato da Babette. E l'episodio che ella racconta è tratto dall'agiografia del Decano e ricorda quando, anni prima, l'anziano religioso aveva promesso agli abitanti di un villaggio, separato da Berlevaag da un braccio di mare, di recarvisi per tenere un sermone in occasione del Natale. Una tempesta che si abbatteva sulla zona impediva la navigazione; al che il Decano proclamò che se la tempesta non fosse cessata egli si sarebbe recato nel villaggio vicino camminando sulle acque. Ed ecco che, tre giorni prima del Natale, la tempesta si placò e quel tratto di mare ghiacciò, cosicché il Decano lo attraversò davvero camminando sulle acque del mare. Anche questa circostanza può, ovviamente, essere vista come una pura coincidenza oppure essere accolta come un segno divino.

Ma la cena prosegue e, nel contesto di un ambiente descritto secondo una raffigurazione che rimanda alla pittura fiamminga del Cinque - Seicento (con particolare riferimento a Jan Vermeer), tra i vestiti scuri dei commensali, spicca l'uniforme azzurra e gialla del generale Löwenhielm, il cui risvolto rosso, a forma di triangolo (ancora!) posto sul petto, sembra suggerire che l'ufficiale sia l'unica persona di quel consesso di vecchi ad avere un cuore o almeno del sangue che scorre nelle vene. Ed è proprio il generale, paradossalmente l'unico che non fa parte della confraternita del Decano, l'unico che ha viaggiato - in gioventù ha vissuto a Parigi e a Londra ed ora arriva direttamente dalla corte svedese - e l'unico che si reca alla cena senza certezze ma con un dubbio nel cuore («può il risultato di tanti lunghi anni di vittorie risolversi in una sconfitta?»), a risolvere l'enigma di Babette, quanto meno per lo spettatore, che capisce trattarsi proprio della chef del Café Anglais, colei che poteva trasformare un pasto «in una specie di avventura amorosa, nobile e romantica». Per quella donna e solo per lei, il generale Galiffet, vecchio amico di Löwenhielm, aveva detto di essere disposto a versare il suo sangue. Proprio quell'ufficiale, personaggio storico, fu il militare incaricato di dirigere le operazioni contro la Comune di Parigi nel 1871, al termine delle quali si guadagnò i soprannomi di "Marchese dai talloni rossi" e di "massacratore della Comune". Quindi è lui che ha versato il sangue del marito e dei figli di Babette, fuggita da Parigi proprio in seguito alla caduta della Comune. È questo uno dei capricci del destino raccontati da Karen Blixen, che in un minuscolo villaggio norvegese tira le fila di una vicenda che si era dipanata tanti anni prima. Ed è qui che Babette, con la sua festa di vita, indica agli anziani orfani del Decano la via per la salvezza, anche attraverso l'adesione ai piaceri del corpo, insieme ai doni dell'anima. In questo modo, la donna venuta dalla Francia adempie alle profezie del Decano, secondo il quale le vie del Signore passano anche dove l'occhio dell'uomo non vede piste. E la lezione di Babette (che non tornerà a Parigi, ma resterà insieme ai suoi ospiti) viene compresa dagli adepti della setta, che concludono la Festa con un pacificatorio girotondo intorno al pozzo del villaggio.

 

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