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The Congress

Regia di Ari Folman vedi scheda film

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La recensione su The Congress

di logos
9 stelle

Senz’altro un’opera complessa, sia per la sceneggiatura che per i differenti stili in cui è strutturata. Per quanto riguarda la trama, vengono coinvolte tematiche come l’identità, la finzione, il senso della verità e della non verità, l’illusione del sogno e la disumanizzazione della realtà, ma poi entra in ballo anche il senso stesso del cinema, fino a che punto potrà e dovrà confrontarsi con le nuove tecnologie biopolitiche, e fino a che punto il cinema dovrà e potrà fare a meno dell’attore in carne ed ossa.

locandina francese

The Congress (2013): locandina francese

 

Nella prima parte, sono proprio il cinema e lo star-system ad essere coinvolti. L'attrice Robin Wright, nei panni di se stessa, è oramai poco apprezzabile nei grandi schermi, perciò lo studio cinematografico le impone la scelta di firmare un contratto in cui verrà digitalizzata la sua immagine per almeno 20 anni con il vincolo che lei, pur con il successo assicurato, non potrà più svolgere materialmente la sua professione; altrimenti potrà rimanere così com’è, senza prospettive e con il figlio minore la cui sordità è progressiva e irreversibile, con conseguente perdita della vista (Sindrome di Usher).

Kodi Smit-McPhee

The Congress (2013): Kodi Smit-McPhee

 

Dopo vari tentennamenti, la Robin decide di firmare il contratto, impegnandosi a cedere i diritti sulla propria immagine digitale, che verrà utilizzata come personaggio in qualunque modo decida lo studio, salvo qualche clausola, mentre lei potrà finalmente essere libera, economicamente indipendente e dedicarsi in particolare al suo figlio minore, amante degli aquiloni. Durante la scannerizzazione della sua immagine, all'interno di una cupola reticolare tratteggiata di videocamere e flash, l’attrice deve simulare tutte le varie gamme di emozioni ma a un certo punto si blocca, al che il suo assistente, Al (Harvey Ketithel, in ottima performance), la incalza con una comunicazione evocativa, ricordandole come era diventato agente delle star, perché già a 10 anni nel Bronx sapeva cogliere i punti di debolezza dei propri coetanei e trasformarli in occasione di business e così ha fatto con Robin, trasformando le sue paure, le sue ansie, e tutte le sue emozioni negative in punti di forza, per renderla un’attrice bellissima.

Robin Wright

The Congress (2013): Robin Wright

 

Notevoli sono anche le considerazioni antinomiche circa la scelta che le viene propinata. Se lei vende la propria immagine su cui non avrà più nessun controllo perderà la sua libertà. Ma si può dire anche il contrario: fino a che punto un attore è libero di recitare secondo la sua interpretazione, quando il regista, i produttori, il mercato lo inducono ad assumere certi ruoli, con determinati atteggiamenti espressivi? Quale margine di libertà ha l’attore in carne ed ossa? Con la digitalizzazione, invece, l’attore diventa tutt’uno con il personaggio digitale, ma la sua esistenza reale diventa finalmente libera, per potersi dedicare alla vita, nel mondo famigliare e sociale, pagando però il prezzo di vedersi alienata la sua immagine professionale e artistica. In più sono liberi/alienati non solo gli attori, ma anche i registi, i coreografi, e tutto il sistema professionale del cinema tradizionale.

Folman qui, come si vede, fa emergere una dovizia di tematiche per nulla concilianti. Soprattutto il suo taglio metacinematografico gli consente di costruire tutta una critica sferzante all’industria della settima arte, dove quel che conta è pur sempre la realizzazione di profitti a cui non sempre corrisponde la qualità del prodotto. Con la tecnica digitale non conta più l’interpretazione umana dell’artista ma soltanto la sua computerizzazione finalizzata al successo sicuro.

 

Scaduti i vent’anni previsti dal contratto, Robin, che è sempre sulla cresta dell’onda digitale, senza che lei faccia nulla come attrice, si reca per l’ennesima volta agli studi, in occasione di un grande congresso, che deve segnare una svolta ancora più radicale della settima arte. Siamo dunque in un mondo nuovo, ulteriormente evoluto sul piano tecnologico, soprattutto dal punto di vista chimico. In questo nuovo mondo del 2033, al Congresso si può entrare soltanto dopo aver assunto una fiala, inalata la quale tutto si trasforma in una vera e propria allucinazione in cartoni animati, ma tutte queste allucinazioni non sono altro che il frutto della mente degli invitati al congresso. Pertanto Robin, come una monade leibniziana si ritrova a vivere un mondo allucinato, tutto suo, in cartoni animati, ma in armonia o corrispondenza con quello degli altri. In questo contesto, dove l’onirico si trasforma in realtà, Robin si vede proporre la svolta decisiva, vale a dire vendere all’azienda Miramount i diritti della sua immagine, non più sotto forma digitale, ma sotto forma di composto chimico, in modo che chiunque, assumendola, possa diventare il suo personaggio. E questo discorso vale non solo per Robin, ma per tutti gli attori, per offrire al mondo reale l’occasione di vivere in un mondo parallelo, allucinogeno, dove gli esseri umani con tale sostanza chimica inalata potranno vivere l’esistenza che vorranno e nel mondo più consono a loro, dimenticando le loro miserie, come in una sorta di giardino delle delizie. Invitata a tenere un discorso sul palco a favore di questa nuova svolta inedita dello spettacolo, Robin lancia una critica contro questa droga legale, mentre dei ribelli attaccano il congresso. Nel disordine generale, Robin viene salvata dal suo animatore digitale, Dylan, ma la polizia dello studio cinematografico cattura la donna freddandola con un colpo di pistola.

 

In questa fase del film, molto complessa, bisogna stare attenti ai passaggi non sempre lineari della animazione allucinogena. Robin viene davvero giustiziata nel suo mondo allucinato oppure sta soltanto sognando che ciò avvenga? La distinzione non è chiara perché il mondo allucinato prende le sue forme in base al subconscio, per cui gli eventi che accadono sono correlati con la condizione mentale. Probabilmente, in quel frangente Robin voleva farla finita, perché non poteva accettare un mondo lisergico, che oltretutto stentava a credere che fosse reale. Fatto sta che si risveglia, dopo essere stata ibernata per altri vent’anni, nuovamente in un cartone animato, cioè nel mondo chimico, con a fianco il suo ex animatore Dylan. In questi vent’anni la tecnologia ha realizzato i sogni della Miramount, ossia un mondo completamente animato in cartoni, dove tutti possono essere quello che vogliono. Robin ha perso ormai la nozione del tempo, anche perché tutto è ormai onirico, e il suo unico scopo è quello di ricercare suo figlio, ma di lui, nel mondo animato, non vi è traccia. Come mai? Viene a sapere, da Dylan, che nel mondo reale vi sono coloro che hanno deciso di non alienarsi nelle allucinazioni, e a malincuore, l'innamorato Dylan, le offre un preparato che la farà ritornare nel mondo reale. E’ un mondo, quello reale, ormai abbandonato a se stesso, senza più tensione verso la vita, dove i corpi brancolano senza alcuna relazione, ma qui Robin incontra il dottore del proprio figlio, il quale, dopo aver aspettato invano la madre nella realtà, ha deciso proprio negli ultimi mesi, prima che lei tornasse, di darsi alla chimica, con l’illusione di poter ancora vivere senza più il peso della sordità e della cecità. A questo punto, la madre decide di ritornare nel mondo allucinato, ma il dottore la avverte che il mondo dei sogni non è più quello da cui è tornata, perché quello dei sogni è senza passato, senza tempo, con regole sue proprie correlate al subconscio del soggetto che decide di entrarvi. Ed è per questo che Robin, dopo aver inalato la fiala, rivive le sensazioni e i ricordi del figlio fino a tramutarsi in lui, incontrandolo in un mondo animato dove si adopera a far volare i suo aeroplani. Ma questo incontro animato fino a che punto è condiviso da entrambi o è solo un desiderio del subconscio materno? Nel mondo animato non si ha la garanzia della realtà condivisa, ma al limite solo un’armonia prestabilita tra le monadi sognanti, ma non sempre questo accade, perché è anche possibile che certi eventi (come quando Robin viene giustiziata dalla polizia privata del Congresso) vengano poi cancellati da quelli successivi, come se non fossero mai accaduti.

 

Folman, in questa fatica, ha davvero realizza un’opera mondo, stratificata e ad ampio raggio, sia nelle tematiche che nello stile. E’ un attacco all’industria cinematografica, alla spettacolarizzazione mercificata di cui vive e soffre la post-modernità, che si avverte reale nel virtuale e viceversa, in cui l’alienazione finisce per essere confusa con la stessa libertà, dove neanche la protagonista Robin ne esce indenne, perché pur di non rinunciare alla sua identità di artista e di donna finisce per perdersi in un cartone animato irriverente, dove tutte le personalità dello spettacolo vengono caricaturate, finendo per essere l’occultamento oppiaceo di un mondo reale abbandonato alla sua miseria, perché nel reale in pochi hanno ancora il coraggio di esistere, di stare fuori, preferendo l’implosione chimica allucinatoria dell’animazione. Il finale, dove la madre tramutata in figlio incontra lo stesso figlio, è un rompicapo che rende possibile qualunque interpretazione, ma è pur sempre un incontro non reale, che finisce per essere folgorante perché irto di profonde contraddizioni e ambivalenze, e che può essere inteso come il compendio dell’opera, in cui le identità perdute si ritrovano in una perdita continua di se stessi, ma proprio avendo perso se stesse nel reale possono almeno cercarsi nel virtuale, senza più un fondamento che sia però definitivo e fondatvo nel reale stesso. Niente lieto fine, ma nichilismo sospeso...

 

Tutta la critica che il film esprime rimane, pertanto, una critica al tempo stesso post-moderna, perché utilizza le stesse armi del post-moderno, e non è poi così ingenua da pensare che il virtuale sia più finto del reale. Un film comunque che, per le sue ambivalenze, per la commistione dei generi, ha suscitato non poche critiche, nonostante i pareri in gran parte favorevoli sullo stile dell’animazione e l’impatto delle immagini in generale. Ma un film del genere è comunque fastidioso, è cinema che mina il cinema, quindi è un buon cinema, e non so fino a che punto il punteggio che ha conseguito dalla critica sia davvero imparziale…

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