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Bassa marea

Regia di Roberto Minervini vedi scheda film

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La recensione su Bassa marea

di OGM
5 stelle

Un regista si può innamorare del suo film. Si può appassionare al banale atto di girarlo, di riprendere non importa cosa, non importa come. Può lasciarsi cullare in quell’appagante senso di pace che nasce dal progressivo, deferente attaccamento al soggetto: un’avvolgente sensazione innescata dalla sua crescente docilità all’obiettivo, dalla sua incalzante dimostrazione di saper bastare a se stesso, di poter fare propria la scena, per il semplice fatto di esistere, di muoversi, di respirare. Il protagonista di questo racconto è un ragazzino di nome Tony, che, in qualche luogo sperduto del sud degli Stati Uniti, deve cavarsela da solo, non potendo contare sull’aiuto della madre, una giovane sbandata dedita all’alcol e a compagnie poco raccomandabili. Quel bambino deve inventarsi un modo per trascorrere le torride giornate di un’estate avara di stimoli, in una casa vuota, in mezzo a una campagna desolata. Per fortuna ci sono le ranocchie da rincorrere ed i pesci rossi da pescare. O le freccette da lanciare contro un muro, o un sacco di ghiaccio da rovesciare sul prato. E poi si può sempre rimediare qualche soldo andando col vecchio Vernon a raccogliere lattine. In qualche modo Tony – e,  insieme a lui, il racconto – si sforza di riempire il tempo, concatenando iniziative che di originale ed ingegnoso hanno davvero poco o nulla, ma che comunque confidano di poter ottenere l’effetto sperato.  La storia va avanti, con dolce indifferenza, cercando di accarezzare la vista, mentre la percezione si addormenta lungo la scia di un dramma forse sottinteso, ma che, più probabilmente, si è già consumato prima dell’inizio del discorso, ed è pronto per essere archiviato nel nebbioso fondo della noia. Il silenzio – indebitamente interrotto solo da inutili, didascaliche battute, scandite da un cacofonico doppiaggio – diventa qui un canone scontato, una pagina bianca ovviamente adatta alle circostanze, su cui ognuno è invitato a scrivere quello che vuole: il deserto concettuale si dispone ad accogliere, con uguale disponibilità,  sia  il riservato mutismo dell’osservatore rispettoso, sia  l’immaginazione trasognata dello spettatore indulgente.  La libertà che ci viene concessa non è però uno spunto sufficiente a coinvolgerci nell’incanto autoreferenziale di cui sembra essere preda l’autore: se, per un attimo,  ci può magari anche piacere seguire le morbide movenze del suo sguardo vagante in un nulla trasformato in gioco, alla lunga prevale in noi una certa assuefazione all’insignificanza, all’immobilità, alla rinuncia ad ogni azione che meriti di essere definita tale. Un tessuto liso,  povero di colore, si srotola davanti a noi con studiata ed inespressiva lentezza; e la sua gradazione delicatamente uniforme risulta perfettamente in tinta con un lieto fine che ci lascia freddi. 

 

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