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Un castello in Italia

Regia di Valeria Bruni Tedeschi vedi scheda film

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La recensione su Un castello in Italia

di EightAndHalf
8 stelle

Anche i ricchi piangono. Il vaso cinematografico di Valeria Bruni Tedeschi trabocca di attonita comicità, attonità perché generata da esistenze dense di contraddizioni, criticate, snobbate "di snobbismo", straordinariamente graffianti. Con un'ironia pungente e sarcastica (già a partire dal cognome della protagonista, la stessa Bruni Tedeschi rinominata "Rossi Levi", in riferimento a un cognome ebraico vittima del nazismo "tedesco") fin nel più piccolo particolare, ma senza intenti eversivi e provocatori gratuiti, la regista italiana (con una produzione italo-francese) cerca di esorcizzare i suoi paradossi esistenziali, dalla ricchezza ostentata dal fratello alla voglia spasmodica e caricaturale della maternità, senza per questo trasformare mai il suo personaggio in caricatura. Se infatti l'apparire risulta caricaturale, quasi demenziale, nei momenti in cui lei e il fratello (Filippo Timi) si lanciano in risate impreviste e inadatte alle situazioni, l'essere interiore di ogni singolo personaggio è straordinariamente "psicoanalizzato", soprattutto quello dell'alter ego della regista, che afferma di non aver mai voluto essere psicoanalizzata, ma che non fa altro, nella realtà (poiché è lei a dirigere il film su sé stessa), che spulciare i meandri della sua esistenza attraverso la messa in scena di personali superstizioni, paure, follie più o meno quotidiane. Un chateau in Italie finisce per trasformarsi nel più gustoso e intelligentemente umoristico esperimento metacinematografico e autobiografico, che si apprezza a partire dal tono assolutamente originale, che sembra non avere precursori se non la realtà stessa soggettivamente deformata, e che non si disperde mai in sequenze che appaiano pretenziose e inconsistenti. Così Louis Garrel prende in giro sé stesso, nei ruoli morbosi e perversi in cui ha spesso recitato (da The Dreamers a Ma mère), senza che questa presa in giro diventi parodia, nelle interpretazioni che realizza per un padre regista che conosceva già la sua fidanzata (proprio la Rossi Levi/Bruni Tedeschi) e con una madre che ha avuto un orgasmo quando l'ha partorito. Così la stessi Bruni Tedeschi prende in giro sé stessa, dalla sua famiglia nobile e (fintamente) ricchissima, al suo bel castello in Italia, che un sindaco Silvio Orlando vuole sapere se si può aprire al turismo o meno. Eppure se quella di Garrel appare una presa in giro al limite del grossolano, adorabile ma neanche tanto funzionale alla trama (benché denoti la volontà da parte della regista di non concentrare tutto su di sé e ridurre il film al puro intento autoreferenziale), lo sfogo caratteriale della Bruni Tedeschi invece ha una vena sorprendentemente malinconica, che non si piange addosso (neanche nel lutto), ma che si mette in gioco, nelle credenze, nella volontà di mascherare il ridicolo con il riso, nelle follie superstiziose. E quel che ne esce è un pout-pourri di gran classe, ben sceneggiato e ottimamente diretto, mai edificante né schematico (neanche nella continua diglossia italiano/francese, che sembrerebbe far corrispondere all'italiano i rapporti familiari e al secondo i rapporti amorosi), in cui oltre a rompersi il luogo comune per cui i ricchi sono privi di anima (e i poveri sono poverelli squattrinati, vedi il Serge di Xavier Beauvois), si rompono i ritmi della normale commedia all'italiana, e il film si abbellisce di ritmi talora indiavolati talora pacati e seri, di sequenze quasi oniriche, di sequenze di beffarda ironia. Lo spettatore ne esce deliziato, consapevole che non si trattava di una commedia per la difesa dell'aristocrazia, della borghesia e di qualunque altro ceto sociale (di cui la Bruni Tedeschi fa parte, e che è invece visto in tutte le sue umanissime contraddizioni), ma di una condivisibile riflessione su quanto sia inutile mentire a sé stessi, dandoci false risposte a irrisolte domande. Sarà ripetitivo, ma ripetiamolo: non snobbiamo il cinema italiano, per carità!

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