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Bellas Mariposas

Regia di Salvatore Mereu vedi scheda film

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La recensione su Bellas Mariposas

di ed wood
5 stelle

La voce off è uno dei flagelli del cinema italiano dell’ultimo ventennio. Non si sottrae a questa prassi nemmeno questo film di Mereu, che inonda le immagini di un flusso interminabile di parole, per di più condito con frequenti sguardi in macchina da parte della protagonista-narratrice. Certo, a onor del vero, va detto che in questo caso c’è una forte componente di ironia e straniamento nel racconto di Cate, che contribuisce non poco ad alleggerire i toni dirottando sin dall’inizio il dramma sociale verso i lidi di una commedia sui generis, che include persino punte di grottesco quotidiano (spesso a base di escrementi e altri liquidi corporei) e inanella una serie di estemporanee figure femminili in odore di fellinismo (la sexy-veggente, la paffuta ragazza facile, la bassista provocante, la “lercia” eccetera).

 

La protagonista onnisciente, undicenne che vive in una numerosa famiglia disastrata in un quartiere disastrato di Cagliari, definisce se stessa e gli altri senza possibilità di appello, senza che la non-storia narrata riesca in qualche modo a creare uno scarto fra la realtà e l’idea, senza che vi sia uno sviluppo psicologico o morale. E’ tutto già scritto, tutto dichiarato con spavalderia. Cate divide le persone in 2 categorie: i buoni e i cattivi, in sostanza. Lei sa di essere nella prima: è credente, vergine e si immagina un futuro lontano dallo squallore in cui vive. La sua amica Luna è proprio come lei, quasi una sorella (senza quasi). Suo padre è un balordo erotomane. Suo fratello un teppista tossico. Poi ci sono le varie puttane e i vari puttanieri. E via dicendo. Non c’è dialettica, non c’è sviluppo, non c’è approfondimento. La parola (e i preconcetti di cui si fa carico) è così invadente da negare una sola immagine poetica in tutto il film.

 

Agli ammiccamenti di Cate si accompagna una regia che prova tutto l’affetto possibile per la sua protagonista, sulla scorta di un’empatia così esplicita da auto-disinnescarsi. Il tono complessivo è troppo monocorde, troppo sbilanciato su una rassegnata e consapevole ironia per poter generare un fertile campo in cui coltivare riflessioni complesse su temi come l’adolescenza o l’emarginazione sociale. Va detto che alcuni aspetti salvano in parte il film da un naufragio totale: la protagonista è spontanea e genuina, nonostante la costruzione del suo personaggio; il dialetto rende onesta ed attendibile l’ambientazione; insolita (anche se irrisolta) è l’idea di dividere il film in due parti, una prima in cui vengono presentati i vari personaggi, una seconda che invece è una maxi-sequenza che pedina Cate e Luna in una lunga giornata al mare che si chiude con una rocambolesca serata in cui succede di tutto. Al di là dell’impaccio con cui si accavallano le sottotrame e dell’incapacità di scegliere una strada fra realismo e metafora (o almeno di fornire una consistente e originale chiave di lettura), rimane intatta la resa naturalistica di un’amicizia sincera, pura, fra intimismo ed euforia. Troppo poco però.

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