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12 anni schiavo

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su 12 anni schiavo

di ROTOTOM
8 stelle

E’ un profondo atto di dolore quello dell’inglese Steve McQueen, videoartista di fama mondiale e già realizzatore dei due splendidi Hunger (2008)  e Shame (2011) , sempre con il solidale Michael Fassbender. Pone lo sguardo pietoso verso una piaga, lo schiavismo, che nonostante la sua incredibile concretezza sembra comunque appartenere più alla mitologia storica o alla fantasia letteraria tanto è iperbolica e stereotipata nell’immaginario comune. Invece no, lo schiavismo esisteva e si rifugia appena dietro l’angolo della storia.



La risolutezza del titolo, già dichiarazione d’intenti che sgombra il campo da qualsiasi fraintendimento riguardo al tema trattato, è in linea con lo stile di Steve McQueen, capace di scivolare nei meandri della mente umana, nelle ossessioni dei suoi protagonisti con la spietata franchezza del film di genere  e al contempo conferire al film una forma di altissimo livello e uno scavo psicologico dei personaggi tipico del cinema europeo.

E’ più che evidente che ci sia un movimento di ristrutturazione della storia recente americana (il film è di produzione USA) e che attraverso il cinema si cerchi la catarsi per risolvere il peccato originale dello schiavismo i cui filamenti di razzismo sono pervenuti fino alla contemporaneità. In precedenza la buona colf Hattie “Mami” Mc Daniel fu la prima attrice di colore a vincere un Oscar per il film Via col vento (1939) nel quale la schiavitù era vista più come una collaborazione coordinata e continuativa a corollario dell’intenso melò ambientato  nel profondo sud.



Da Via col vento a 12 anni schiavo molto tempo è passato e anche la rappresentazione della schiavitù ha subito profondi cambiamenti.  “Lincoln” di Steven Spielberg e “Django Unchained” di Quentin Tarantino, due esempi recenti (2012), hanno riproposto sullo schermo, ognuno con il proprio stile e messaggio,  “quel” tema verso il quale ancora oggi ci si confronta. Storia e mito si scontrano, si impastano e ne esce una verità più o meno accettabile.



A McQueen interessa il corpo come sublimazione fisica della mente, inserito in un contesto ben definito: la gabbia che la società costruisce per l’uomo.
In Hunger era il carcere nel quale Bobby Sands  si trasformava nel fantasma che alla potenza delle strutture di contenimento e alla durezza della detenzione opponeva il proprio spirito. L’ideale che faceva a meno di quel corpo martoriato decretando la sconfitta dei suoi carcerieri. In Shame, l’ossessione per il sesso era moltiplicata dalle superfici riflettenti della metropoli urbana, gabbia asfissiante di fugaci incontri , immagini senza profondità che la pulsione di morte dell’orgasmo cercava di rendere reale.  In 12 anni schiavo la gabbia è uno stato intero che ammette le catene e per cultura trasforma l’uomo in bestia da soma.
Più la ragione dell’ossessione è semplice più è terribile: il colore della pelle. Rispetto a Spielberg e Tarantino, Mc Queen aggiunge un tassello alla mappa dello schiavismo del sud degli Stati Uniti del 1841, venti anni prima della guerra di secessione: i rapimenti di gente di colore nel nord, nel quale lo schiavismo non c’era e i neri erano a tutti gli effetti cittadini liberi per essere impiegati nei campi del sud.



Capita a Solomon Northup stimato musicista, sposato e padre di due figli che circuito da una coppia di millantati impresari viene rapito e messo in catene. La trasformazione da uomo a bestia avviene nell’ambito di una notte. Questo aspetto, brutale e secco che caratterizza il film accentua ancora di più la dicotomia tra i due mondi e la condizione di vita del protagonista. Privato dell’identità e impiegato nella raccolta del cotone, venduto da una fattoria all’altra, piegato a punizioni corporali bestiali, Solomon cerca di trattenere con sé l’umanità, la cultura di cui è in possesso – negherà di saper leggere e scrivere secondo un assioma universale per cui la conoscenza per i regimi oppressivi è un pericolo da eliminare -  per rimanere vivo e al momento buono cercare un aggancio per ritornare dalla sua famiglia.



Un film durissimo e commovente, brutale a volte nel mostrare le pesanti conseguenze della follia dell’uomo bianco su quello nero. Bianco e nero, un film di corpi che si sfidano di mondi che si scontrano. Negli occhi dei primi si legge la rabbia per la consapevolezza – latente – che quel mondo finirà, un mondo anacronistico ben mostrato nella sua arretratezza rispetto alla New York del 1841. Negli occhi dei secondi la disperata consapevolezza – reale – che quel mondo non finirà mai o quanto meno, finirà solo con la morte.



Queste due consapevolezze sono ribaltate negli sguardi dei due protagonisti, Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor) , e Edwin Epps (Michael Fassbender), possidente terriero spietato e fermo sostenitore dei suoi diritti di schiavista, sadico, dal fisico nervoso divorato dall’ossessione per una schiava per la quale avverte un misto di attrazione e repulsione. In mezzo al confitto tra i due uomini, una scala di grigio che mirabilmente McQueen impone per allontanare qualsiasi tentazione allo stereotipo. In uno scenario naturale di superba bellezza – meravigliosa la fotografia calda che ammanta il territorio della Louisiana -  il regista inserisce le storie di schiavi che riescono ad avere un posto di privilegio nella fattoria, fianco a fianco al padrone.



Così come le donne di colore che riescono a ritagliarsi una sorta di fiducia famigliare, accompagnarsi al padrone  stesso – viene usato spessissimo “Master” come appellativo - e vivere se non da padrone anch’esse, da dame di compagnia privilegiate capaci di dare una prole pur restando a tutti gli effetti di proprietà del Master.

Si torna quindi – al netto di tutte le ingenuità del film di Victor Fleming-  alla Hattie Mc Daniel di Via col vento . Questa ambiguità è sorprendente e trattata con gusto e pudore, con rispetto per un sentimento umano che sfuma tra l’amore e la paura, il rispetto e la sudditanza.



Il racconto di McQueen è quanto di più lineare  esista ma denso di immagini cariche di un significato profondo, capaci di sollecitare l’emotività più genuina poiché tocca temi universali che riguardano la profonda essenza dell’essere umano.  La cultura salva Solomon, quella negata fino ad allora per convenienza, la conoscenza della scrittura è la prova che egli è un uomo libero.  La ribellione del protagonista non è quindi brutale come la sua prigionia, non avviene per mezzo di un atto di violenza ma attraverso la cultura che rivela la sua umanità. Se un film deve avere un messaggio – e non deve averlo per forza – questo è un messaggio di una forza devastante messo in scena con un’eleganza e una coscienza etica ed estetica di altissimo valore.



Rispetto alle opere precedenti che trovavano nella forma  una sublimazione della condizione interiore del personaggi unitamente ad una sperimentazione del linguaggio filmico, in questo film Mc Queen non ha bisogno di caricare ulteriormente il quadro di elementi estranei al racconto. Evita ogni ridondanza adottando una narrazione classica, compatta ed estremamente pulita che accentua la drammaticità della vicenda per contrasto.  Tutto quello che succede è lì, visibile, non interpretabile. E’ la normalità di una condizione disperata e per questo ancora più potente.



Il film è tratto dalla storia autobiografica dello stesso Solomon Northup, scritta dopo la sua liberazione, sceneggiato da John Ridley e fotografato da Sean Bobbitt già collaboratore di Steve McQueen nei suoi film precedenti.  12 anni schiavo è assolutamente imperdibile, potente ed emozionante e giustamente si candida tra i protagonisti della notte dell’Academy Award per cui è nominato in nove categorie. Se possibile è consigliabile vederlo in lingua originale per cogliere ogni sfumatura del linguaggio  dei personaggi – molto importante seguire il modo di parlare di Solomon libero e Solomon schiavo -  , soprattutto dell’immenso Chiwetel Ejiofor e  di Michael Fassbender, solito gigante di recitazione. Cammei  anche di Brad Pitt (anche produttore)  Benedict Cumberbatch, Paul Dano e Paul Giamatti.
 

 

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